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Tudor Arghezzi

Sul "Corriere della Sera" del 23 aprile 2002 Giovanni Raboni (in un articolo intitolato I grandi scrittori di destra fanno ancora scandalo) enumera alcuni "grandi scrittori di sinistra" da lui ammirati e venerati. Siccome nell'elenco viene inserito anche il romeno Tudor Arghezi (1880-1967), ritengo opportuno pubblicare qui di seguito la mia traduzione di due poesie di questo autore.
Il prof. Raboni sicuramente non le conosce, dal momento che le due poesie del "grande scrittore di sinistra" non si trovano in nessuna delle due antologie poetiche di Arghezi edite in Italia (Poesie, a cura di S. Quasimodo, Mondadori 1966 e Accordi di parole, a cura di M. Cugno, Einaudi 1972).
Et pour cause… Si tratta di due componimenti dedicati a Corneliu Z. Codreanu, il Capitano della Guardia di Ferro, che da Arghezi viene identificato con Fat Frumos ("Bel Giovane"), il protagonista di tante fiabe della letteratura popolare romena.

Claudio Mutti

 

ASCESA

Tu sei simile a colui il quale
Ti ha impastato, ti ha cercato e ideato
Ed è rimasto in te, impietrato, il segno
Del colpo della spada vittoriosa.

A colui che tocca intatto il fango
E può spingere il suo percorso anche oltre il cielo,
In mezzo a rame, selce e ferro:
Gigantesco, calmo, agile.

Egli aspira a mutarsi in lastra di marmo,
A sublimi solitudini di stalattite,
Da sempre del tutto dissimile,
Con le ali serrate che viaggiano con lui.

Tu sai tacere quando è da tacere
E in ogni ora innalzi una torre
All'Arcangelo, al grande taciturno,
Inquieto per la sua forza pesante.

Tu sai soffrire, amare e consolare,
Dagli uomini lontano e da te stesso,
Ma non son gioie languide e sospiri
Che appannino il tuo acciaio e il tuo fulgore.

 

F[t Frumos

Dove mai sarà andato F[t Frumos,
sul suo cavallo, ché non lo si vede
in nessun luogo più, per quanto il sole
alto risplenda e si abbassi la luna?

Deserti e afflitti, per l'ultima volta
dal cielo i monti con lor cime vogliono
vederlo nella valle di granito,
vivo se è vivo, oppur morto se è morto.

Il suo canto, che tutta questa terra
circonfondeva tal quale in un sogno,
sì che anche l'occhio dei falchi restava
chiuso in ascolto, s'è interrotto a un tratto.

S'è staccato dai boschi ed è scomparso
dal piano; triste, come priva d'anima,
questa terra non trova più ragione
che ci sia il giorno e discenda la sera.

Suonava il flauto suo; intorno, decine
di candidi villaggi affascinati,
centinaia di giovani e di vergini
ne ascoltavan le doine all'imbrunire.

Si svegliavano all'alba alla sua doina,
si innamoravan alle sue canzoni;
si sentivan leggeri i fidanzati
e più belli, calcando l'erba soffice.

Farfalle ballerine nevicavano
su lui a schiere; amico di cinghiali
e di cervi, le fiere lo guardavano
come fanciulle amabilmente timide.

Nessuno ha idea di dove mai sia andato
F[t Frumos dalla chioma folta e nera,
dagli occhi azzurri come lapislazzuli,
dalle sottili sopracciglia arcuate?

Giù dai monti, a cavallo per le rupi,
è sceso e quattro notti ha sfavillato
la terra sotto gl'impazienti zoccoli
che han lottato col vento e con la pietra.

Prese il flauto, ma prese anche la scure
e armi pesanti, in mano a lui leggere;
e passò, come freccia per il bosco,
come fulmine apportator di sole.

Attraversò tutto il Paese; e quando
il Danubio non volle dargli il passo,
lo fendette balzandovi nel mezzo,
col petto in acqua e con il casco fuori;

e quel nero stallone che sbuffava
con le nari a fior d'acqua, avresti detto
che trasportava Dio, o quanto meno
un messo di Traiano oppur del Papa.

La razza tetra, laida e sanguinaria
che dimora nel mondo sublunare
minacciava le doine e la bellezza
fiera di F[t Frumos, la sua gaiezza.

E F[t Frumos, interrompendo il canto,
sentì nel sangue divampare fiamme;
nella voce, nel pane e nella terra
il calore sentì del cielo avito.

E nella vita sua una luce nuova,
e un appello veniente dalle Altezze
e dovunque una voce sconosciuta
e un esortar di segni e di sussurri

ignoti fino allora, che sorgevano
per dissolversi l'uno dopo l'altro,
mentre in ciel comparivano figure
alate, esseri bianchi si affollavano.

Si alzavan grandi flutti, risuonava
come giaco il fogliame e l'orizzonte
era come un vassoio sagittato.
Clamor di plausi e murmure di ferro
in una tessitura sanguinosa
di esistenze e di lance raffrenate.

Ora il nemico è andato ad ammazzarlo;
che lo anneghi in un vortice di sangue
o disserri la sua tenebra fitta,
misericorde ma senza pietà,

come vorrà, ché il degno successore
di Stefano e di Vlad Impalatore
alza per l'avversario are di roccia,
ma pure forche, erette e ben piantate.

Tu, o Patria, attendi che di nuovo i loro
canti si insinuin silenziosamente
tra i rami, dall'oriente all'occidente,
e dall'una frontiera fino all'altra.

(trad. C. Mutti)