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Bibliografia Italiana

Scritti di E.M. Cioran
-Storia e utopia [Histoire et utopie], prefazione e trad. dal franc. di Mircea Popescu, Edizioni del Borghese, 1969.
-I nuovi dèi [Le mauvais démiurge], prefazione e trad. dal franc. di Mircea Popescu, Edizioni del Borghese, 1971.
-2a ed., con una postfazione di Gianfranco De Turris, Mito, storia e utopia secondo Emil Cioran, Ciarrapico Editore, s.d. [ma: 1979].
-Piccola Antologia, scelta e traduzioni di Mario Andrea Rigoni, in "Nuovi Argomenti", 1980, genn.-giugno, pp. 5-21.
-Squartamento [Ecartèlement], trad. dal franc. di M. A. Rigoni, con una nota introduttiva di Guido Ceronetti, Cioran, lo squartatore misericordioso, Adelphi, 1981, 19893.
-Storia e utopia [Histoire et utopie], a cura di Mario Andrea Rigoni, con una postfazione di M.A. Rigoni, Contaminazione totale, Adelphi, 1982, 19882.
-Quel Borges mostro geniale, in "Corriere della Sera", 20 febbr. 1983.
-La tentazione di esistere [La tentation d'exister], trad. dal franc. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti, Adelphi, 1984, 19883.
-ed. Bompiani, 1988, con una postfazione di Fulvio Del Fabbro, E.M. Cioran: la vita, i libri.
-Il demiurgo cattivo [Le mauvais démiurge], trad. dal franc. di Diana Grange Fiori, Adelphi , 1986; Il funesto demiurgo, 19872.
-Lettere di Emil Cioran, in Mircea Eliade e l'Italia, a cura di Marin Mincu e Roberto Scagno, trad. dal romeno di Doina Popa e Margherita Dorissa, Jaca Book, 1987, pp 274-277.
-Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti [Exercices d'admiration. Essais et portraits], trad. dal franc. di M.A. Rigoni e Luigia Zilli, Adelphi, 1988.
-Lacrime e santi [Lacrimi si sfinti], trad. di D. Grange Fiori dalla versione franc. Des larmes et des saints, con una Nota della curatrice Sanda Stolojan, Adelphi, 1990.
-Sylvie Jaudeau, Conversazioni con Cioran [Cioran, Entretiens avec Sylvie Jaudeau], trad. dal franc. di Leopoldo Carra, seguite da Mistica e saggezza di S. Jaudeau, Guanda, 1993.
-Lettera a un amico lontano e Breve ritratto di Dinu Noica, trad. dal franc. di Roberta Ferrara, in E.M. Cioran e C. Noica, L'amico lontano, Il Mulino, 1993.
-Sillogismi dell'amarezza [Syllogismes de l'amertume], trad. dal franc. di Cristina Rognoni, Adelphi 1993; 19952.
-Luoghi ritrovati. E.M. Cioran e P. Tutea a confronto, a cura e introduzione di F. Del Fabbro, trad. dal rumeno di Cristina Fantechi, con una nota di Roberto Carifi, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1995.
-La caduta nel tempo, trad. dal franc. di Tea Turolla, Adelphi, 1995.
-Sommario della decomposizione, [Précis de décomposition], trad. dal franc. di M.A. Rigoni e T. Tea Turolla, con una Nota di M.A. Rigoni, Adelphi 1996.
- Al culmine della disperazione [Pe culmile disper[rii], trad. dal romeno di Fulvio del Fabbro e Cristina Fantechi, Adelphi 1998.


Scritti su E.M. Cioran (non compresi nei volumi di Cioran come prefazioni o postfazioni)
-Voce Cioran, Emile M. (p.71) e voce Nichilismo (p.375) del Dizionario di filosofia contemporanea, diretto da M.A. Quintanilla, ed. it. a cura di M.Martini, Cittadella ed., Assisi 1979.
-M.A. Rigoni, E.M. Cioran, il funambolo dell'intollerabile, in "Nuovi Argomenti", 1980, genn.-giu., pp. 21-23.
-J. Uscatescu, Cioran e l'esilio metafisico, in: J. Uscatescu, Saggi di cultura e filosofia, Studio Editoriale di Cultura, Genova 1981, pp. 277-283.
-G. Ceronetti, Misericordia, che squartatore!, in "L'Espresso", 10 maggio 1981.
-A. Giuliani, Cioran lo squartatore, in "La Repubblica", 28 maggio 1981.
-C. Fruttero e F. Lucentini, Cioran e il peggio, in "La Stampa", 29 maggio 1981; rist. in La prevalenza del cretino, Mondadori, Milano 1985, pp. 344-347.
-R. Guarini, Lo squartatore inesistente, in "Il Messaggero", 2 giugno 1981.
-F. Larocca, Un "fanatico senza credo", in "Gazzetta Ticinese", 2 giugno 1981.
-P. Citati, Cioran innamorato della decadenza, in "Corriere della Sera", 25 giugno 1981.
-E. Severino, Ma l'Occidente quando finirà?, in "L'Europeo", 6 luglio 1981.
-L. Baldacci, rec. di Squartamento, in "La Nazione", 1981.
-I. Bignardi, Cioran cavaliere del malumore, in "La Repubblica", 13 ott. 1982.
-P. Citati, Cioran: "Oggi la vita ha bisogno di utopia", in "Corriere della Sera", 4 nov. 1982.
-L. Baldacci, Un libro di Cioran celebrità ignorata, in "La Nazione", 24 nov. 1982.
-C. Magris, I professionisti del pessimismo, in "Corriere della Sera", 28 nov. 1982.
-R. Quadrelli, La banda internazionale dei neognostici, "Il Tempo", 5 dic. 1982.
-M. Belpoliti, L'ultimo degli ultimi, in "Il Manifesto", 22 genn. 1983.
-E. Severino, Ma cosa pretende l'utopia?, in "L'Europeo", 7 febbr. 1983.
-M.A. Rigoni, presentazione di una lettera di Cioran, in "Corriere della Sera", 20 febbr. 1983.
-D. Galateria, L'uomo senza qualità, in "Il Globo", 20 febbr. 1983.
-C. Marabini, Alla scuola dei tiranni, in "Il Resto del Carlino", 25 marzo 1983.
-M. Camilucci, Filosofia e letteratura fra crudeltà e pietà, in "L'Osservatore Romano", 24 apr. 1983.
-R. Guarini, Il Club dell'Abisso, in "L'Espresso", 2 ott. 1983.
-P. Citati, Ogni riga è diverso e si chiama Cioran, in "Corriere della Sera", 28 ott. 1984.
-E. Cicelyn, I predatori dell'esistenza, in "Il Mattino", 1 nov. 1984.
-G.C. Roscioni, Amatissima carogna, in "La Repubblica", 12 genn. 1985.
-M. Bernardi Guardi, La sapienza amara di Emil Cioran, in "Parsifal", genn.-febbr. 1985, pp. 19-24.
-G. Codovini, Cioran, il folle della vita nel tempo della precarietà, in "L'Umanità", 20 febbr. 1985.
-A.M. Tripodi, rec. de I nuovi dèi, in "Filosofia oggi", 1985, I, pp. 116-118.
-P. Citati, L'apocalisse può attendere, in "Corriere della Sera", 21 giugno 1985.
-P. Zizi, rec. di La tentazione di esistere, in "Rivista Rosminiana", 1985, III, pp. 332-333.
-E. Croce, rec. di La tentazione di esistere, in "La Nazione", 1985.
-S. Moravia, Tentazione di esistere del terribile Cioran, in "La Nazione", 9 ag. 1985.
-B. Spinelli, Cercando l'Impero del Mezzo, in "La Stampa", 24 nov. 1985.
-P. Citati, Cioran, la vita come imprevisto, in "Corriere della Sera", 21 marzo 1986.
-E. Rasy, Monsieur Ceronetti, vero?, in "Panorama", 23 marzo 1986.
-S. Quinzio, Reazionario, cioè affascinante, in "Panorama", 23 marzo 1986.
-A. Giuliani, Vi presento il sotto-dio, in "La Repubblica", 26 marzo 1986.
-F. Gianola, Padre, ma che razza di mondo hai fatto?, in "Il Giorno", 30 marzo 1986.
-G. Arpino, Veleni quotidiani, in "Il Giornale nuovo", 6 apr. 1986.
-S. Quinzio, Cioran: il guaio peggiore è dover vivere, in "La Stampa", 19 apr. 1986.
-B. Spinelli, Cioran: l'assillo della Fine, in "La Stampa", 12 ott. 1986.
-E. Guicciardi, Cioran buddista e terrorista [Intervista], in "La Repubblica", 4-5 gennaio 1987.
-L. Breda, Meglio Dio che niente, "Panorama", 10 maggio 1987.
-A.M. Tripodi, Una civiltà esausta, in Atti del Congresso internazionale "Il commercio delle idee nella cultura europea", a cura di M.A. Raschini, Japadre, L'Aquila-Roma 1987.
-A.M. Tripodi, rec. di Esercizi di ammirazione, in "Filosofia Oggi", 1987, II.
-A.M. Tripodi, Cioran, metafisico dell'impossibile, Japadre, L'Aquila-Roma 1987.
-M. Formica, Le vertigini della veglia. Emile M. Cioran (intervista), in "Leggere", 11, maggio 1989.
-AA.VV., Cioran profeta della decadenza, numero monografico di "Diorama letterario", n.148, maggio 1991.
-C. Mutti, Emil Cioran e il suo pensiero politico, "Storia Verità", ag./sett.-ott./nov. 1991.
-C. Mutti, Cioran e la Guardia di Ferro, "Sacro e profano", n.8, dicembre 1991.
-M. Bernardi Guardi, Il barbaro dei Carpazi, "L'Italia settimanale", 8 sett. 1993, p.53.
-F. Marcoaldi, Voci rubate. Canetti, Jünger, Berlin, Hrabal, Cioran, Edelman, Paz, Einaudi, Torino 1993.
-C. Mutti, Le penne dell'Arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro, S.E. Barbarossa, Milano 1994, pp. 75-85.
-C. Noica, Ricordo di Cioran, in E.M. Cioran e C. Noica, L'amico lontano, cit.
-M. Jakob, Cioran scrittore del nulla, "Il Giornale", 21 genn. 1995.
-M.A. Rigoni, Denunciò con parole di fuoco tutte le menzogne del pensiero; U. Munzi, L'ultimo cavaliere del nulla; "Fin da ragazzo sono vissuto nell'ossessione della morte" (da un'intervista di G: Liiceanu), in "Corriere della Sera", 21 giugno 1995.
-F. Fejtö, Sbeffeggiò Dio, la vita, tutti, in "Il Giornale", 21 giugno 1995.
-F. Marcoaldi, L'uomo sedotto dal nulla, in "La Repubblica", 21 giugno 1995.
-C. Mutti, Cioran, fratello mio caro, in "L'Italia settimanale", 8 dicembre 1995.
-C. Quarantotto, Il grande "apocalittico", ibidem.
-Cioran, "Origini" (numero monografico a cura di C. Mutti), n.13, febbraio 1996.
-F. Fejtö, "Volevo la Romania smisurata e potente", in "Il Giornale", 31 luglio 1996.
-T. Mian, La mia vita con Cioran [intervista a Simone Boué], in "Il Giornale", 31 luglio 1996.
-R. Cristin,"Volevo essere un saggio sono soltanto un folle", in "Il Giornale", 15 febbraio 1997.
-P. Lagazzi, Fra le spire del nulla, in "Gazzetta di Parma", 18 febbraio 1997.
-P. Romani, Cioran nazista e antisemita. Il passato scomodo del filosofo, in "Famiglia cristiana", 21 maggio 1997.
-T. Mian, Cioran, eretico ma innocente, in "Il Giornale", 2 luglio 1997.
- C. Veltri, Processate Émile Cioran perché odora di nazismo, in "Lo Stato", 27 gennaio 1998.
- Fernando Savater, Cioran. Un angelo sterminatore, Frassinelli, Piacenza 1998.
- Maurizio Cabona, Le cattiverie private di un nichilista. Cioraon (sic), in "Il Giornale", 2 novembre 2001.

HITLER, MUSSOLINI, CODREANU


"L'hitlerismo lo puoi accettare o rifiutare; nondimeno esso rappresenta uno stile di vita che cresce organicamente, in Germania e al di là dell'attualità concreta in cui esso viene elaborato e si radica nelle coscienze individuali, si integra nella continuità e nel senso della storia tedesca. L'hitlerismo nasce dall'essenza e dal destino storico del popolo tedesco; non ha fatto altro che scavare ancor più l'abisso che separa irrimediabilmente la Germania dalla Francia e recare la verifica suprema del drammatico antagonismo storico di questi due popoli. Se c'è qualcosa che mi piace nell'hitlerismo, è la cultura dell'irrazionale, l'esaltazione della vitalità in quanto tale, l'espansione virile della forza, senza spirito critico, senza riserve e senza controllo. Tutti sono d'accordo che non si può essere nazionalsocialista senza una partecipazione spontanea e senza rinunciare a riflettere su una missione storica... In effetti, tutto questo movimento non ha fatto che volgarizzare i principi della filosofia della vita (Lebensphilosophie)... La mistica del sangue li ha condotti al culto mistico del suolo come politica contraria allo spirito... La necessità di un Führer non trova la sua ragione soltanto in uno squilibrio d'ordine politico ed economico, ma più che altro nella mancanza di un asse interiore dello spirito tedesco... Questa gente non può vivere senza norme, senza comunità, senza Führer".
E. Cioran, Germania si Franta, "Vremea", VI, n. 318 del 18 dicembre 1933.

"Alcuni dei nostri amici crederanno che sono diventato hitlerista per qualche ragione di opportunismo. La verità è che qui [in Germania, n.d.t.] ci sono certe realtà che mi piacciono e sono convinto che la bricconeria autoctona potrebbe essere repressa, se non distrutta, da un regime di dittatura".
E. Cioran, Lettera a Petru Comarnescu, 27 dicembre 1933.

"Nel mondo di oggi non esiste uomo politico che mi ispiri una simpatia e un'ammirazione più grande che Hitler. Esiste qualcosa di irresistibile nel destino di quest'uomo, per il quale ogni atto della vita acquista significato solo attraverso la partecipazione simbolica al destino storico di una nazione... La mistica del Führer in Germania è pienamente giustificata... Il merito di Hitler è di avere rapito lo spirito critico di una nazione".
E. Cioran, Impresii din München. Hitler în constiinta germana, "Vremea", VII, n. 346 del 15 luglio 1934.

"Nella vita di una nazione, il regime democratico è adatto soltanto ai periodi classici, quando la nazione può ingrassare nella libertà, quando le divergenze non sono dissoluzione e la libertà non è un eccesso... Le epoche torbide, insicure, nelle quali l'uomo oscilla tormentato alla ricerca di un fanatismo che lo leghi in modo fatale e diretto a qualcosa, recano necessariamente la dittatura come una forma che offre all'uomo un ancoraggio durevole e una coscienza di grande stabilità... Solo in un regime di questo genere la gioventù può essere organizzata, solo in un regime di questo genere è essa stessa una potenza... La dittatura deve essere intesa come una fatalità... Una gioventù in uniforme è immagine di potenza e volontà di potenza. La sua adesione intima ad un sistema dittatoriale la lega strettamente alla vita dello stato. La democrazia ha coltivato solo le tendenze centrifughe della gioventù... La dittatura ha il culto della forza. Una forza intorpidita può essere scossa dal torpore solo con la forza. Gli apologeti della democrazia chiamano libertà una condizione che, in fin dei conti, è solo passività, marasma e indifferenza. Se anche la gioventù intende la libertà in questa accezione, allora questa libertà deve essere distrutta. Tutta la gioventù deve essere scossa e ridestata alla vita".
E. Cioran, Dictatura si problemele tineretului, "Vremea", VII, n.358 del 7 ott. 1934.

"Vi sono uomini che possono respirare solo in democrazia, così come altri possono respirare solo in dittatura... Si tratta di decidere in tempo e di non optare per una soluzione soprastorica. Una cosa è parlare della dittatura come dell'unica salvezza della Romania, altra cosa è parlarne come di una forma in generale. Perciò mi riesce impossibile avere un entusiasmo teorico per la dittatura, anche se credo che sia l'unica via d'uscita per la Romania. Chi non crede nel modello dello spirito dittatoriale qui da noi si estrania dal futuro prossimo di questo paese... Quando si parla di 'barbarie' hitlerista, di 'mascherata' sovietica o di 'teatro' fascista, il carattere improprio di tali qualifiche definisce solo l'irriducibile di queste realtà. Ogni mondo nuovo è multiforme e minaccioso per poter essere contenuto in una formula. Le dittature 'razionalizzano' le nazioni, ma hanno in se stesse qualcosa di germinale, di primavera tormentata e caotica, di inevitabilmente esplosivo. Ma, poiché la dittatura comincia con un rovesciamento, essa può finire solo con un rovesciamento... In Germania, per non essere intossicato o contagiato dall'hitlerismo, ho cominciato a studiare il buddhismo. La meditazione sul nulla mi ha aiutato a capire, per contrasto, l'hitlerismo, meglio di ogni libro di ideologia... Se in Romania morissero tutti tutti gli attuali militanti dell'idea dittatoriale, essa nondimeno evolverebbe verso la dittatura... Il fenomeno nazionalista che la Romania oggi vive ci indirizza verso il momento più essenziale della nostra storia... La dittatura è ante portas. Si ingannano coloro che sperano in diserzioni o viltà".
E. Cioran, In preajma dictaturii, "Vremea", X, n. 476 del 21 febbraio 1936.

"E' più che significativo il gesto di Mussolini dopo l'ingresso degli eserciti in Addis Abeba... Dichiara con enfasi unica: da oggi l'Italia è un impero... Col fascismo, l'Italia si è proposta di diventare una grande potenza. Risultato: è riuscita a interessare seriamente il mondo... Senza il fascismo, l'Italia sarebbe stato un paese fallito... Il grande merito di Mussolini è di avere inventato per l'Italia la forza... Il fascismo è un trauma, senza il quale l'Italia è un compromesso paragonabile alla Romania attuale".
E. Cioran, Este Italia o mare putere?, "Vremea", IX, n. 439 del 31 maggio 1936.

"Prima di Corneliu Codreanu, la Romania era un Sahara popolato. L'esistenza di coloro che si trovavano tra quel cielo e quella terra non aveva altro contenuto se non l'attesa. Qualcuno doveva venire. Passavamo per il deserto romeno incapaci di qualunque cosa. Perfino il disprezzo mi sembrava uno sforzo. Il paese non poteva essere un problema se non in modo negativo... La Romania non era se non una farsa riuscita... Questo misero paese era una vasta pausa tra un inizio senza grandezza e una vaga possibilità. In noi gemeva l'avvenire. In uno pulsava. Ed egli ha rotto il dolce silenzio della nostra esistenza e ci ha costretti ad essere. Le virtualità di una stirpe si sono incarnate in lui. La Romania, da possibilità che era, si avviava a diventare potenza... Questi pensieri hanno formato la nostra norma. In essi respirano la natura e il cielo. E quando cominciarono a realizzarsi, il fondamento storico del paese tremò. Corneliu Codreanu non ha posto i problemi della Romania immediata, della Romania moderna e contemporanea. Era troppo, troppo poco... Egli ha posto il problema in termini ultimi, nella totalità del divenire nazionale. Egli non ha voluto riparare la miseria approssimativa della nostra condizione, ma introdurre l'assoluto nella respirazione quotidiana della Romania... Il Capitano ha dato al romeno un senso. Prima di lui, il romeno era solo romeno, cioè un materiale umano costituito di assopimenti e mortificazioni. Il legionario è un romeno fornito di sostanza, un romeno pericoloso, una fatalità per sé e per gli altri, una bufera umana infinitamente minacciosa. La Guardia di Ferro è una selva fanatica. Il legionario deve essere un uomo in cui l'orgoglio soffra di insonnia... Colui che ha dato al paese un'altra direzione e un'altra struttura univa in sé una passione elementare e il distacco dello spirito. Le sue soluzioni sono valide nell'immediato e per sempre. La storia non conosce un visionario con uno spirito più pratico, con tanta comprensione del mondo sostenuta da un'anima di santo. Parimenti, essa non conosce un altro 'movimento' in cui il problema del riscatto si accompagni strettamente all'economia... Vicino al Capitano, nessuno rimaneva tiepido. Sul paese è passato un brivido nuovo. Una regione umana devastata dall'essenziale. La sofferenza diventa il criterio del merito; la morte, della vocazione... La fede di un uomo ha dato nascita a un mondo che lascia dietro di sé la tragedia antica e Shakespeare. E questo nei Balcani! Su un piano assoluto, se avessi dovuto scegliere tra la Romania e il Capitano, non avrei esitato un istante. Dopo la sua morte, ciascuno di noi si è sentito più solo... A eccezione di Gesù, nessun morto ha continuato ad essere presente tra i vivi... D'ora in poi, il paese sarà guidato da un morto, mi diceva un amico sulle rive della Senna. Questo morto ha diffuso un profumo di eternità sulla nostra minutaglia umana e ha riportato il cielo sopra la Romania".
E. Cioran, Profilul interior al Capitanului, "Glasul stramosesc", III, n. 10 del 25 dic. 1940.

NAE IONESCU E IL DRAMMA DELLA LUCIDITA'


Ho cominciato a decifrare il turbamento ispirato dalla presenza del professor Nae Ionescu quando mi sono reso conto che esistono, in certi uomini, irradiazioni personali di cui vorresti cadere vittima, per non essere più tu, per morire nella vita di un altro. L'infinito della magia personale ti fa abbandonare l'orgoglio dell'individuazione e cerchi di diventare tutto in un altro. Qualcosa del genere deve essere stato provato da Nietzsche in presenza di Wagner, che più tardi egli attaccò non per gelosia, ma per istinto di conservazione. Per quello che ciascuno di noi deve diventare, gli uomini più pericolosi sono quelli che amiamo di più.
Quante volte, in vibranti accenti d'affetto, Nae Ionescu mi è sembrato l'unico uomo per il quale si può rinunciare! La tentazione, cioè, di vivere la sua vita. E non sarei sincero, se non dicessi che sono tanti tra i giovani a vivere in lui. La gente che lo conosce solo superficialmente parla di "demonia", come se Nae Ionescu si sforzasse di conquistare la nostra ammirazione per annientarci. E come gli sarebbe stato facile! Gli sarebbe bastato dare "via libera" ai suoi dubbi e ai suoi tormenti. Ma quante volte non ha consentito all'errore, solo per debolezza verso la vita e forse anche per il fatto che finora non è esistito nessun professore di dubbi.
Il fascino dell'esistenza di Nae Ionescu ha anche, però, un suo fondamento più profondo e più paradossale. Infatti, accanto a questa tendenza di perderti in lui, di scivolare su tutti i suoi conflitti, non ho conosciuto un altro uomo che possa obbligarti ad essere maggiormente te stesso. Una bizzarra alternanza di tendenze, che spiega perché senza di lui non possiamo più vivere. Quanti tra noi avrebbero avuto il coraggio di tante negazioni e solitudini, se non ci avesse preceduti nelle cattive conoscenze e non vi fosse invecchiato!
Stomacato di storia e di conoscenza, una volta a Berlino avevo pensato di scrivere una tesi di dottorato sulle lacrime. E mi trovai d'accordo con tanti amici sul fatto che il solo professore al mondo che la avrebbe accettata sarebbe stato Nae Ionescu. Per paradosso? Per tragedia e lucidità.
Ho sentito dire: va bene, ma non crede in niente. Che ingenuità! Lui sa che credere non è tutto. E la gente parla di nichilismo. L'obiezione che farei io, è che egli ha trovato in questo mondo qualcosa in cui credere. Che non ne abbia tratto le conclusioni estreme? Che cosa non darei, per poter credere anch'io che egli non crede in niente!
L'uomo che ha scritto: "Simon Pietro dorme. E tutti noi dormiamo come lui. Per questo perfino l'amore è sofferenza. Il mondo si contorce nel dolore come un verme sulla brace. E Dio con esso." (Roza vânturilor, p. 420) non può essere accusato però, in nessun caso, di farsi delle illusioni. Fino a che punto è stato condannato alla lucidità? Nessuno ha insistito più di lui sul dramma del sapere. E' l'unico professore dal quale io abbia imparato quale grande perdita sia la conoscenza. La rottura dell'equilibrio originario per mezzo dello spirito e la disintegrazione dall'essere attraverso la coscienza sono frutti della tentazione demiurgica.
Ma la demiurgia umana è uno slancio verso la catastrofe. Finché rimaniamo nel quadro della condizione umana, la salvezza non esiste. Ogni uomo, dal momento che sa di esistere, non può riscattarsi se non negando il principio della sua individuazione. E così Nae Ionescu trova nell'individuazione la fonte del male, della caduta, del naufragio dell'esistenza. Che attraverso l'amore oltrepassiamo i conflitti legati alla nostra soggettività in quanto tale o che attraverso l'azione usciamo da noi stessi entrando nella sfera dell'obiettività, che cosa contano queste soluzioni di fronte al tragico umano, al tormento della coscienza, al male essenziale di sapere che vivi e così non poter più vivere!
Nae Ionescu si è reso conto che per vivere devi ingannare la tua lucidità con diverse "formule di equilibrio": Dio, nazione ecc... E così, uno degli uomini più lucidi che siano esistiti in queste contrade è riuscito a integrarsi nella storia, a "aderire", oscurando in modo volontario e drammatico la sua lucidità. La partecipazione alla lotta per decisione, e non per istinto, spiega perché negli ultimi dieci anni egli sia stato al centro della nostra vita politica, senza essere quello che si dice un uomo politico, poiché è sempre stato molto di più.
La storia è fatta da sergenti ispirati. Ecco perché Nae Ionescu non potrà mai realizzarsi direttamente nella storia. Il gregge ha istinto e avverte che alcune sono le strade della vita e altre quelle dello spirito. E che per ogni uomo lucido il mondo esiste per concessione...
Una cosa è credere e un'altra è aver volontà di credere. Nel primo caso, vivi felice in Dio; nel secondo, pensi a lui. La coscienza ha trasformato l'assoluto in una funzione della disperazione. Sono troppo pochi i mortali che possono vivere in pace e in accordo con Dio. Allora da un conflitto insolubile nasce una delusione metafisica, la cui conseguenza immediata è la passione nell'immanenza. Soltanto così mi posso spiegare la volontà di potenza di Nae Ionescu e lo strano equivoco della sua passione politica. L'orientamento verso il concreto, verso le realtà storiche, l'ossessione della Romania non sono in lui il frutto dell'istinto.
Alcuni dei miei amici sbagliano quando spiegano la sua passione per la Romania con una aderenza organica alla stirpe e al suolo. In realtà, Nae Ionescu è troppo interessante, perché si possa vedere in lui soltanto un patriota istintivo. Un metafisico che fa politica, ecco un fenomeno che non è così semplice. Che cosa ti induce a degradarti "nel mondo", che cos'è che ti precipita nell'immanenza? Una sensibilità metafisica è un disprezzo continuo del temporale. Allora com'è che nasce in un metafisico la tentazione del tempo, cioè la gioia della caduta, la partecipazione gioiosa al peccato di esistere, all'immediato e al divenire? Il fallimento nell'esperienza dell'assoluto è la fonte della passione nell'immanenza.
Quando Dio non ti ha preso tra le sue braccia, ti consoli con la dissolutezza della temporalità. Il silenzio divino porta gli uomini tormentati alla politica.
A causa del ritardo delle risposte trascendenti al nostro tormento e alle nostre domande, noi perdiamo la pazienza e ci risolviamo per le cose passeggere. La delusione metafisica ci rende giornalisti, uomini politici, nazionalisti ecc... Non sarà forse qui la chiave della sorte di Nae Ionescu? Sembra che sia stato lui stesso, una volta, a dire che da quando fa politica è metafisicamente morto.
La volontà di potenza in uomini di questo genere non consiste tanto nell'affermare, quanto nel distruggere. Voglio dire, nell'autodistruggersi. Tutti gli avversari di Nae Ionescu sostengono la medesima cosa: è un uomo intelligente, ma distruttivo. Costoro non comprendono nulla del suo fascino sconcertante, della sua stravaganza irresistibile. Egli non vuole distruggere nulla e nessuno, vuole solo consumare la sua caduta nel tempo, in una terribile aderenza e inaderenza al mondo.
Mi sarebbe difficile trovare un altro uomo che più di lui abbia reso problematico il proprio destino. A interessarlo fino all'ossessione non è stata tanto la tortura della soggettività, quanto il pathos esistenziale, il tormento monumentale del suo essere. Una volta parlava del "serpente della demiurgia": vorrei sapere se qualcuno è stato morsicato più di lui da questo serpente. Nae Ionescu un cristiano? Amo troppo il suo orgoglio, per credere che sia semplicemente un cristiano. E poi, in tutte le sue lezioni il Paradiso non è mai stato una realtà, solo il Giudizio finale lo è stato. Quanto a me, ero un allievo modesto, che si presentava con il maestro perché ricevessimo una condanna sicura... Riscatto? La lucidità è una colpa contro il Paradiso e nel Giudizio non esiste sentenza più grave... Tutte le lucidità sono colpevoli.
Se Nae Ionescu fosse un temperamento nervoso ed esplosivo, il dramma che egli vive sarebbe troppo evidente e troppo accessibile. La sua calma apparente gli conferisce, però, gravità e imponenza. Quando parla della condizione umana come di un naufragio, una catastrofe, un peccato, le parole hanno una patetica sobrietà e sembra che un pianto di campane si sia smarrito in un trattato di logica...
Il gesto ispirato di Mircea Eliade, di raccogliere in un volume una parte degli articoli del professore, che delineano non un momento ma un'epoca, è giunto proprio mentre ci troviamo ad un bivio. In questi anni si deciderà tutto. Mentre quasi tutti gli intellettuali si sono tirati in disparte, Nae Ionescu è stato presente, presente al centro della Romania. Che poi la Romania sia solo un mezzo per non essere più se stessi, per rinunciare a se stessi, o che sia invece una preda del "serpente della demiurgia", questo è un altro paio di maniche. Non credo che Nae Ionescu sia così poco pessimista da considerare gli uomini, e con gli uomini tutta la storia, niente altro che dei pretesti. Da lui ho imparato che l'esistenza è una caduta e nessuno mi potrebbe impedire di trarre la conclusione che lo scopo della vita è il tormento, l'autotortura, la voluttà satanica. E' vero, però, che non tutti sono stati destinati ad un'autodistruzione bella e appassionante.
E. Cioran

(Nae Ionescu si drama luciditatii, in "Vremea", a.X, n.490, 6 giugno 1937,p.4.Trad. it. di C.M.)


MAGLAVIT E L'ALTRA ROMANIA

Maglavit è un villaggio romeno che nella seconda metà degli anni trenta divenne meta di frequenti pellegrinaggi, poiché un pastore analfabeta del luogo, tale Petrache Lupu, riceveva le apparizioni e le rivelazioni di un'entità che egli chiamava "il Vecchio". Fuori dalla Romania la vicenda è nota soprattutto perché tra coloro che ebbero a che fare con il fenomeno Maglavit vi fu Michel Vâlsan. Questi "era andato a trovare Petre Lupu e ne aveva ricevuto una specie di benedizione. Da allora questa storia lo ossessionò ed egli si sentì letteralmente 'posseduto' dal 'Vecchio'. Impaurito da tutto ciò, aveva ripreso, con il rigore che sempre lo caratterizzava, le pratiche ortodosse [...] Arrivò a Parigi in cattivo stato: 'sentiva' Petre Lupu parlargli e viveva in estrema tensione, dedicando tutto il proprio tempo alle preghiere e a scrivere per Guénon una voluminosa relazione di questa storia" (Jean Robin, René Guénon. Testimone della Tradizione, Il Cinabro, Catania 1993, pp. 367-368). Mircea Birtz annovera Petrache Lupu tra quei veggenti che, insieme coi maestri di vita spirituale e coi taumaturghi, costituiscono una manifestazione dell'Urgrund tradizionale romeno (Nota introduttiva a: Vasile Lovinescu, La Colonna Traiana, Ed. all'insegna del Veltro, Parma 1995, pp. 10-11).

Ho creduto a lungo che il popolo romeno fosse il popolo più scettico d'Europa. Questa convinzione si basa su molte esagerazioni, ma anche su alcune constatazioni, tanto tristi quanto incontestabili. Tra tutte le persone che ho conosciute, persone semplici o colte, quelle che credono in qualcosa le posso contare sulle punte delle dita. Il dubbio volgare, il dubbio sulle realtà passeggere e il dubbio sulle realtà eterne, mi è parso la caratteristica essenziale del romeno. E' scettico un popolo che non ha l'istinto della libertà. Mille anni di schiavitù e di tenebra costituiscono un'eredità mostruosa e, a pensarci bene, allucinante. Molti hanno detto che la riflessione del cronista circa il dominio del tempo sull'uomo rappresenta l'espressione ultima della nostra saggezza popolare. Dichiaro però, a voce alta e forte, che per il destino storico di una nazione io non conosco nulla di più sinistro del "poveruomo sotto il tempo!" Si potrebbe ancora parlare di futuro politico, con le massime di questa saggezza paralizzante? Per mille anni siamo stati sotto il tempo. Rifiuto categoricamente per l'avvenire la veridicità di questa saggezza e di questa profezia. La conciliazione con il destino, che tutti i nostri storici lodano come una salvezza del popolo romeno, è una vergogna che dobbiamo passare sotto silenzio. Ha fatto molto male ad accettare il suo destino e ancor peggio farà ad accettare quello attuale. Per nazionalismo, dovremo stigmatizzare questo genere di virtù e dovremo vergognarci di parlare ancora della nostra rassegnazione secolare.
Nell'ambito religioso, lo scetticismo sembrava ancor più scoraggiante. La mancanza di una religiosità appassionata e specialmente la mancanza di intolleranza religiosa sono stati segni dolorosi che hanno rivelato un livello interiore molto decaduto. Non esiste vita interiore senza religiosità. Si può essere un uomo superiore, antireligioso; ma areligioso, può esserlo solo un mediocre. Non è grave non credere in Dio; ma è molto grave non preoccuparsi della sua esistenza. Non si può passare indifferenti accanto a Dio.
Una volta, pensando alla religiosità misurata, positiva e calcolata del transilvano, ho affermato: in Transilvania nessuno crede in Dio.
Non si può credere in maniera approssimativa e razionale. O credi con la passione di tutta quanta l'esistenza, o non credi affatto. La religiosità deve essere lirica e fanatica, mai placida e mansueta. E' mille volte meglio non credere in Dio, che credere solo quanto ti basta. La fede degli uomini in genere è occasionale, ma lo è specialmente quella dei romeni. E non sarei stato lontano dall'affermare che nessun romeno crede in Dio, se Maglavit non avesse portato alla superficie un volto insospettato del paese.
Su Maglavit non si può avere una convinzione precisa e un sentimento definito. Talora questo fenomeno mi sembra estremamente rivelatore e sintomatico, per sembrarmi altre volte primitivo, vuoto, raccapricciante.
E' evidente che Maglavit può essere giudicato soltanto come un fenomeno collettivo. Quel pastore non interessa di per sé, in quanto è di pertinenza o della mistica o della psichiatria. Quello che mi sembra riprovevole nel rifiuto di tanti negativisti è l'incomprensione scandalosa per il fenomeno dell'allucinazione. Tutti noi sappiamo che Dio o esiste o non esiste, non si è mai mostrato a nessuno nella realtà. Dal punto di vista della vita interiore, tra me che non ho mai visto Dio e Petrache Lupu che lo ha visto, la differenza è così grande a mio svantaggio, che spiritualmente quel pastore è più ricco di me. Egli ha visto Dio, mentre io ho visto solamente uomini, sofferenza e morte. Questo pastore, che mi è del tutto indifferente, è il più avvantaggiato. Veder chiaro non è affatto una virtù. Psicologicamente parlando, l'allucinazione è sempre un vantaggio, anche se la psicologia è quella che annienta le allucinazioni. L'allucinazione tradisce quanto vi è di più profondo in noi. Tutto il dramma di Ivan Karamazov ci si manifesta nel dialogo con il diavolo, proiezione della sua tragedia e del suo demonismo. Vedi Dio soltanto se lo hai abbondantemente in te. L'allucinazione dà espressione a una suprema attualità interiore. All'uomo normale non si mostra nulla, perché non dispone di nulla all'infuori di se stesso. L'uomo normale non ha se non lo specchio.
Quanta poesia non ha messo Barrès nel rimpianto di non avere allucinazioni, nelle sue passeggiate per le campagne della Lorena, per sperimentare dal vivo le visioni pagane? Oppure penso a Rilke, nel castello di Duino, dove ha scritto una parte di quelle divine elegie e dove, in una allucinazione dell'udito, ha sentito le voci di tanti morti che nel corso dei secoli hanno consumato la loro esistenza in quelle solitudini. Lo dico più con intenzione che senza: non avere nessuna allucinazione è un segno di deficienza. Quanto al pastore, lasciamolo col suo "vecchio" e noi torniamo alle nostre pecore...
Come si è potuta trovare tanta gente così sensibile al miracolo? Sarebbe certamente molto facile rinchiudere tutto il nostro paese in un capitolo di psichiatria. Tuttavia in tal modo non risolveremmo nulla, così come non risolveremmo nulla riabilitando l'allucinazione. Esistono nella storia crisi mistiche, e la storia non so quante volte è stata dichiarata santa o satanica. I fenomeni organici nelle grandi crisi religiose sono conseguenti ai drammi spirituali. L'umanità, purtroppo, non è così malata come sostengono gli psichiatri. Il contagio presuppone una comunione spirituale, alla quale succede la serie dei disturbi organici.
Con le condizioni economiche si può spiegare l'ampiezza assunta dal pellegrinaggio, ma non certamente il fenomeno in sé. La spiegazione puramente economica trascura lo specifico di questo fenomeno e ne apprezza soltanto l'estensione. Forse che una crisi -la quale è meno grave degli anni passati- potrebbe mobilitare la gente verso finalità così evidentemente extraeconomiche? Qualcuno potrebbe immaginare che nella Russia zarista le sette hanno tratto origine solo dalla miseria e da un regime funesto? Sarebbe assurdo contestare il loro carattere sintomatico, come sarebbe assurdo interpretarle solo come reazioni.
Dire che Maglavit è nato da una delusione politica della gente, sarebbe giusto solo nella misura in cui in questa delusione si intravede una grande aspettativa. La Romania si trova alle soglie di una grande trasformazione, su tutti i piani. Maglavit racchiude in sé i precedenti religiosi di un grande rovesciamento politico. Nessuno ha capito che Maglavit precede un grande fenomeno politico? E' in questo senso che le sette religiose sono state sintomi della rivoluzione. Nessuno ha pensato che i medesimi uomini che oggi si trovano uniti nella fede in Dio, domani potranno trovarsi uniti per un'altra fede? Se la gente ha potuto fare tanti sacrifici per una visione non verificabile, di quale sacrificio non sarà capace per una realizzazione visibile? Che cosa non farà per una promessa terrena, se per una promessa celeste ha abbandonato temporaneamente il focolare? Il fascino della grandezza terrena non sarà più allettante e più stupefacente? Adesso lo sappiamo; sappiamo che anche i romeni possono essere allettati, che hanno liquidato lo scetticismo volgare, che sono capaci di serietà e di assurdo.
Non so se è bene che gli uomini credano o non credano in Dio. Ma davanti allo scetticismo volgare cui ci eravamo abituati, Maglavit rivela un incontestabile progresso. Davanti a quella Romania superficiale e lucida, sorridente e passiva, se ne leva un'altra: sotterranea, spaventosa e minacciosa, che è qualcosa solo se diventerà qualcosa. Maglavit ci ha dimostrato una volta per tutte quanto siamo primitivi. E' Maglavit il livello del paese. Ciò è sicuramente triste, ma anche confortante, perché ci libera da tante illusioni dannose. La Romania è al livello di Maglavit. Che cosa dobbiamo fare, allora? Tutto.
Lucian Blaga ha scritto dopo la guerra, sulla rivolta del nostro sangue non latino, uno studio che ha provocato all'epoca molte discussioni. Credo che l'avvenire illustrerà a sufficienza questa teoria. A esser sincero, non capisco affatto perché dovremmo essere latini. Non abbiamo ereditato nessuna qualità dai Romani. La componente latina deve essere molto ridotta, perché in tutti i grandi fenomeni romeni sono emerse componenti d'altro genere. Chi trovasse a Maglavit una goccia di sangue latino potrebbe essere considerato uno scopritore geniale. Tutto è così primitivo, tellurico, sotterraneo! Sullo ctonismo autoctono si potrebbero dire molte cose tristi, ma anche molte incoraggianti. Tutta la forma di vita romena mi sembra così legata alla terra, che non farsi protagonista di alcuni ideali moderni significa desiderare la perpetuazione di uno spirito tellurico e reazionario. Se sapessi che questo popolo non si sbarazzerà prima o poi della terra, allora sarei costretto a vedere in Maglavit un culmine, quando esso deve essere solo un sintomo e un inizio. Quello che accade a Maglavit non è la linea sulla quale dovrà procedere la Romania, ma soltanto un modo per manifestare una solidarietà che troverà la sua espressione nella lotta politica. Se la gente di laggiù ha trovato tanta energia per trasfigurarsi, troveranno in sé le riserve per trasfigurare la Romania.
Se sapessi che Maglavit rimarrà un fenomeno puramente religioso, senza nessuna conseguenza d'altro ordine, sarei il suo più grande avversario. Quando le insoddisfazioni della moltitudine sono soddisfatte solo da valori religiosi, allora ogni trasformazione diventa illusoria. I teorici rivoluzionari non sono contro la religione per un rifiuto teorico dei valori religiosi, ma a causa della resistenza che questi valori oppongono ad ogni tentativo di trasformazione totale. Il sentimento religioso è per sua essenza non rivoluzionario, e l'uomo profondamente religioso è stato sempre un reazionario. Spostando nell'aldilà i conflitti di quaggiù, col tempo egli finisce per essere completamente estraneo al problema sociale. Non solo. Lo spirito religioso ti fa volgere la faccia verso il passato. A un uomo che crede in Dio, l'avvenire non può recare più nulla. Dio è sempre dietro di noi. Tutta quanta la teologia è reazionaria, perché non vede vertici se non nell'antichità immemorabile. Per la teologia, il tempo è una caduta; per lo spirito rivoluzionario, è l'unico quadro di realizzazione. Di più: per lo spirito rivoluzionario, il tempo è una Divinità. Nel tempo si può fare tutto. Ammettendo la possibilità di una modificazione essenziale nella temporalità, lo spirito rivoluzionario cade in un paradosso che costituisce il suo carattere tragico e il suo fascino. Nel tempo non si trovano modificazioni di struttura e di essenza, poiché esso è una fluidità di sfumature. Il tempo attualizza e distrugge. Ma in esso non può nascere un mondo essenzialmente nuovo. Il tragico dello spirito rivoluzionario consiste nella violenza fatta al tempo e alla vita.
La religione, opponendo in ogni attimo l'eternità al tempo, paralizza lo spirito rivoluzionario. La religione ha fermato l'umanità, non perché sia un poco inferiore, ma perché essa è troppo per l'uomo. Che significato hanno le visioni celesti per esseri così bassi? Poiché l'uomo non ha meritato la religione, poiché egli non ne è capace, la religione lo ha paralizzato. Un giorno dovrà nascere una religione delle cose di quaggiù, per noi. Davvero, Dio è troppo lontano.
L'ossessione dell'eternità strappa l'uomo alla vita. Forse tutta quanta la religione non è se non un divino smarrimento dell'uomo.
Affinché un tale smarrimento non porti il paese intero in un vicolo cieco, dovremo offrire alla Romania illusioni terrene, promesse visibili, ideali storici. La psicosi di Maglavit deve essere convertita e sfruttata. L'essenziale è che essa contribuisca alla nascita di un grande fenomeno politico. Non si può sapere quale sarà; ma si può sapere che, se non nascerà, siamo un paese condannato.
Tutti i fenomeni collettivi che nascono nel nostro paese devono essere sfruttati e convertiti. E si dovranno fare pellegrinaggi non solo di devozione, ma anche di conquista.

E. Cioran

(Maglavitul si cealalta Românie, in "Vremea", a.VIII, n.408, 6 ott. 1935, p.3. Trad.it. di C.M.)

LA NECESSITA' DEL RADICALISMO


L'azione non nasce e non è nata mai se non dalla passione. Il calcolo, l'equilibrio, la prudenza sono stati sempre distanti, oggettivi e paralizzanti. I pensieri sono un veleno, un impaccio per lo slancio, un ostacolo di qualunque decisione. Non si può procedere all'azione senza una decisione fanatica, senza un ardore bestiale, senza un minimo di incoscienza. Prigioniero di una lunga meditazione, ti rendi conto che non si può fare nulla, che non c'è nulla da fare e che ogni azione è una vergogna. Dall'esterno delle cose, tutto è inutile, superfluo, ridicolo. La distanza e la solitudine spazzano via l'incanto delle illusioni, la tentazione delle cose immediate, la passione per il transeunte. Ma senza illusioni, senza cose immediate e senza transeunte, tutto è insulso, incolore e inespressivo.
E' terribile vivere tra gli uomini. Ma che senso ha vivere senza di loro? Chi non ama gli uomini e simultaneante non prova una schifo infinito per loro, non capisce nulla dell'equivoco di questa esistenza. Ed è su questo equivoco di base che devi passare, per prendere una decisione, pronunciarti categoricamente in un senso, andare per una linea. A volte qualunque azione mi sembrerebbe divina, se non avesse in vista gli uomini e l'umanità. Gli uomini non meritano nessuna azione. Non posso dimenticare quale delusione abbia significato, nella mia passione politica, la rivelazione di un fatto straordinariamente semplice, di un'evidenza schiacciante: la limitazione del politico all'umano, e per di più ad una sfera angusta dell'umano. La politica non concerne se non l'uomo in quello che egli ha di volgare e di eterno. Ora, è possibile sacrificare la propria esistenza per così poco? Ma, in definitiva, nei temi sopratemporali non si risolve di più. L'uomo, in qualunque senso, è perduto.
E quando ti sei reso conto che tutto è nulla e continui in modo assurdo ad amare la vita, allora devi deciderti per un gesto, per un atto, per l'azione. Perché è più importante distruggersi nella frenesia, che nella neutralità. E' quasi una impossibilità vivere in maniera neutrale in mezzo alla vita, considerare come uno spettacolo questa maledetta e amata terra.
Nessuna azione può nascere dal capire e dal comprendere. Ogni azione è un atto di violenza e nasce da una limitazione di prospettiva voluta o incosciente. Uno slancio unilaterale è la molla indispensabile di qualunque azione. I pensieri senza adesione organica non dimostrano assolutamente nulla. Un pensiero che non diventa gesto è perfettamente inutile.
Un giorno si dovrà scrivere una riabilitazione degli ossessi. Sono così pochi gli uomini che hanno osato vivere e morire con un unico pensiero! Sprofondarsi in un pensiero, fino al punto di sostituirsi alla realtà pensata, sicché essa impallidisca dinanzi a te e tu divenga più di un simbolo. Un Kirilov significa di più che un pensatore sottile, sfumato, che si libra irresponsabilmente al di sopra delle idee. Giorno e notte, perdere con un pensiero e per un pensiero tristezze e gioie, rimpianti e aspirazioni. Un'idea viva deve essere sanguinante, una crociata o una catastrofe. Solo gli ossessi hanno rovesciato la storia; gli altri rattoppano e completano.
Da un'ossessione nasce il gesto radicale. Siccome l'ossessione trivella l'anima e il corpo, il gesto radicale presuppone la nostra intera esistenza. Quanto più siamo totali e quanto più ci esauriamo in una partecipazione, tanto più la nostra azione si avvicina al radicalismo.
Un movimento, di qualunque natura esso sia, non si può affermare nella storia se non è attraversato da un radicalismo. E quando pensiamo in grande, credo che grazie al radicalismo il popoli grandi si sono differenziati rispetto a quelli piccoli e insignificanti. I popoli sbiaditi, col loro ritmo lento e con il respiro soffocato, non conoscono nulla della respirazione ampia e del ritmo accelerato dei popoli grandi, che scoppiano di radicalismo. Un popolo grande ha i suoi pregiudizi eterni, che lo rendono vitale e dal quale sono resi vitali. Il pluralismo storico delle nazioni non dimostra nulla a favore di un principio ideale e unico. I popoli non vivono per la verità, ma per una loro verità, la quale deriva la sua validità dalla vitalità, e la vitalità la verificano col radicalismo. I popoli sbiaditi, che non possono mai arrivare all'universalità, devono inevitabilmente soffrire di una deficienza interna, di una diminuzione della vitalità, di un minus biologico. Essi non possono dare origine da soli ad un fenomeno proprio, poiché oscillano continuamente entro un dilettantismo insulso. Il radicalismo è il vero opposto del dilettantismo.
Quando si obietterà che il radicalismo di qualunque specie si basa su una visione angusta, dovremo rispondere che la storia non avanza se non per mezzo di visioni anguste. Solo un falso prospettivismo storico ci fa credere a strutture ampie o a totalità definitive. Anche se vogliamo definire l'azione storica come totalità, quest'ultima è sempre una totalità individuale, secondo la giusta caratterizzazione di Troeltsch. Tutto ciò che è storico si realizza in forme limitate ed anguste. La nostra visione retrospettiva amplifica e dilata i contorni di un'epoca, attribuisce loro altre dimensioni e perfino un altro contenuto. Molto spesso si afferma che noi vediamo il Rinascimento molto più semplificato di quanto non fosse nella realtà. Riesco a credere mille volte meglio che noi tutti lo vediamo molto più complesso di quanto non fosse, e questo a causa del fatto che proiettiamo nel Rinascimento tutto ciò che per derivazione tardiva è nato da esso. Tutto quello che nel barocco o nel romanticismo procede dal Rinascimento, lo attribuiamo a quest'ultimo. Ciò vuol forse dire che l'uomo del Rinascimento sentiva in sé tutte le conseguenze del suo modo di vita, tutte le possibilità di realizzazione e di compimento? Non è più probabile che egli sia rimasto chiuso entro una cerchia di valori estremamente limitata, sprofondato nel nocciolo di questi valori, ma in nessun modo nelle loro ramificazioni e nelle loro possibilità?
Un'epoca viva e creativa è chiusa in sé, con un orizzonte limitato dall'intensità della passione che produce nuove forme di vita. Che un'epoca di tal genere possa tuttavia acquisire un senso universale, lo si deve all'unicità di quei valori. Nella storia, acquista universalità solo ciò che è unico. Ciò che è generale muore.
Ogni epoca grande comprende in sé una spinta verso il radicalismo. Anche le epoche classiche sono arrotondate solo in superficie, poiché il fondo da cui sorgono i valori classici presuppone una passione unica.
La spinta verso il radicalismo, oggi così caratteristica, è il segno di un momento epocale. Chi è oggi contro il radicalismo, non solo non ha capito il significato del momento attuale, ma non capirà neanche quello del momento di domani.
Tutti gli uomini calibrati devono essere gettati alla periferia della vita e della società. Che cosa ci potremmo aspettare da uomini di questo genere? Gli uomini impulsivi hanno sempre dato impulso alla storia. Tutti gli altri, nelle epoche di mediocrità dell'umanità, si sono compiaciuti nel correggere e nel diminuire i fatti risultanti dall'ardore, dalla passione o dalla follia.
Un paese che non conosce il radicalismo è una vergogna della storia, se non dello spirito, mentre un individuo alieno dal radicalismo è una vergogna per la società, se non per l'uomo.
Qualunque cosa si dica, il radicalismo porta da qualche parte. Ma dov'è che porta lo spirito ponderato ed equilibrato? Piuttosto di un equilibrio mediocre e sterile, meglio una catastrofe. E da una catastrofe, è sempre grazie al radicalismo che si esce.

E. Cioran

(Necesitatea radicalismului, in "Vremea", a. VIII, n. 411, 27 ottobre 1935, p.3.Trad.it. di C.M.)

LETTERA DAI MONTI


A queste altezze ho imparato ad apprezzare la bellezza risultante da una forma compiuta e da una consistenza determinata meno di quella la cui presenza ti suggerisce l'infinito e ti dilata interiormente al di là di ogni limite. Lontano dall'incanto di un paesaggio chiuso, con la prospettiva ridotta e i contorni netti, amo il paesaggio infinito, privo di confini come le purezze azzurre del cielo, che evolvono verso un limite inaccessibile, come in una remota visione crepuscolare. Amo ciò che è gotico in natura, lo slancio trascendente nelle forme naturali, che imprime in te capacità e piacevole inquietudine, nonché una concentrazione meditativa come nel presentimento di realtà remote e fascinose. Questa incompiutezza nelle forme naturali provoca in te un'inquietudine come nel presentimento di vaghe eternità.
Ho avuto nelle valli montane, oltre a solitudini assolute e facili melanconie, la rivelazione completa della bellezza, più ossessiva che nella contemplazione delle opere d'arte, le quali ti fanno propendere verso la riflessività più di quanto non ti dominino e ti conquistino in un irresistibile fascino. La vera bellezza è quella che increspa il sublime, che oltrepassa un ideale di armonia puramente formale, consentendo nelle cristallizzazioni delle forme una tensione e un dinamismo dei più esagerati. Coloro che vedono nell'ideale di bellezza un'evoluzione verso la forma assoluta sono fatalmente insensibili al carattere di grandiosità della bellezza naturale. E' forse per questo motivo, che i Greci non hanno avuto il sentimento della natura, il quale presuppone un'esperienza organica dell'infinito, un'esaltazione nell'illimitato, una tensione e una dilatazione in cui l'illimitatezza esteriore fa crescere simili immensità interiori. La sensibilità per la plasticità ha fatto sì che i Greci comprendessero il fenomeno dell'individuazione e trascurassero le radici metafisiche di un dinamismo universale.
La mediocrità irrimediabile degli uomini non è evidente in nessuna occasione più di quanto lo sia nella tranquillità quasi indifferente con cui essi contemplano la natura, nella loro superficiale serenità, per cui non si lasciano sopraffare né influenzare dallo sconcertante fascino della bellezza. Quasi tutti gli uomini vivono a distanza, esteriormente, senza una partecipazione drammatica, feconda di conseguenze e ricca di trasfigurazioni.
Perciò sono pochi quelli che si lasciano sopraffare da una realtà, sono pochi quelli che la interiorizzano, la fanno crescere entro di sé, in una evoluzione intima, mescolandola nell'intimo contesto del loro essere e sostenendo implicitamente la pressione soffocante della complessità del reale o del suo aspetto rispettivo. E' così che si spiega perché per lo più si muoia per cause d'ordine fatale e normale. In questo mondo non è ancora morto nessuno a causa della bellezza. Ascoltate bene: non si è ancora trovato nessuno che muoia nell'estasi di una bellezza, nessuno che soccomba sotto il peso di un fascino irresistibile. Il mio desiderio assoluto è che l'uomo non sia più un animale razionale, cioè un animale mediocre, ponderato, equilibrato o desideroso di equilibrio, ma piuttosto un animale assurdo, dalle fantasie pericolose, che rischia tutto in ogni momento, avventuroso per una causa tragica, e non per superficialità. Allora probabilmente si lascerebbe sopraffare o, per meglio dire, vivrebbe fino al parossismo certi aspetti e certe forme di vita che egli vive in un compromesso vergognoso, in una mediocre conciliazione e indulgenza.
Dostoevskij dice da qualche parte che la bellezza salverà il mondo. Sarà vero? Vi sono soltanto alcuni per i quali la bellezza è occasione di dimenticare grandi tragedie. Per costoro essa è sicuramente una salvezza temporanea, ma solo temporanea, affinché il ritorno alla tragedia sia ancora più grande. Per altri essa è un'occasione di ampliamento della serenità, di crescita interna e di segrete voluttà. Per alcuni, infine, è meditazione e rivolta, perché, paragonando la bellezza con la trivialità dell'esistenza, quest'ultima appare insopportabile. In nessun caso si può parlare di salvezza definitiva, ma soltanto di un oblio temporaneo e anche questo in due soli casi. Di qui a parlare di finalità metafisica della bellezza c'è una distanza incommensurabile. Si potrebbe parlare di salvezza duratura, solo quando il bello si impregnasse tanto organicamente del nostro essere, che in ogni momento convertissimo le antinomie in armonie, le contraddizioni in sintesi e le divergenze in conciliazioni; e al di là di tutte queste unificazioni, si diffondessero raggi e splendori, sicché si potesse assistere a una vera estetizzazione cosmica, ad un'estasi estetica dell'esistenza.
Quello che impressiona nel fascino ammaliante dei monti, è che si presente una bellezza più profonda di quella dei livelli formali e superficiali.
E' una bellezza che sembra sorgere dal seno dell'esistenza, come una delle sue modalità di oggettivazione. Ma come può salvare il mondo una sola modalità di oggettivazione del mondo? Le radici metafisiche del bello possono esprimere al massimo il carattere consecutivo ed essenziale del bello stesso, ma in nessun caso la sua capacità di salvezza definitiva ed universale. Perciò è arrischiato parlare di una grande finalità metafisica del bello. Tutti coloro che intendono la vita come tragedia e si consumano nella visione di alcuni attimi essenziali, sentono che nelle grandi tensioni, nei crocevia della vita, non solo la bellezza non ha nessun senso, ma la sua presenza non ha nessuna influenza effettiva sull'uomo. Solo quando il fenomeno tragico cessa di occupare temporaneamente il centro della coscienza, il bello può avere una prevalenza contingente. Vi sono poi tante situazioni che rifiutano organicamente il bello. La sofferenza è una negazione della bellezza, come lo è ogni aspetto della miseria. E la sofferenza è una realtà infinitamente più essenziale, più evidente e più gravosa di tutti gli aspetti del bello. In tal modo l'umanità può rinunciare alla bellezza, ma mai alla sofferenza.
L'essenza satanica della sofferenza separa l'uomo dall'esistenza, lo allontana dalle intimità della vita, da una partecipazione irrazionale al ritmo cosmico e, di conseguenza, dalle condizioni di percezione e realizzazione del bello.
Il satanismo del dolore fa della vita un bene perduto. Viceversa, la bellezza la trasforma nell'unico bene esistente e possibile. Solo per coloro che sono inebriati di bellezza, questo mondo doveva essere così come è.
Per gli altri, essa rimane un'assurdità universale, illuminata talvolta dai riflessi di una bellezza remota.

Paltinis-Santa

E. Cioran

(Scrisoare din munti, in "Calendarul", a. II, n. 447 del 16 agosto 1933, pp.1-2. Trad. it.di C.M.)

L'ULTIMA POSSIBILITA' DELLA ROMANIA

Il 13 dicembre 1937, da Parigi, Cioran scriveva a Mircea Eliade, all'epoca candidato nelle liste elettorali del partito legionario Totul pentru Tara, la lettera che riproduciamo qui di seguito nella traduzione eseguita da D. Popa e M. Dorissa per il volume Mircea Eliade e l'Italia, curato da M. Mincu e R. Scagno (Milano 1987). Dopo il terzo capoverso, il lettore troverà un omissis. Da noi richiesto di spiegazioni in proposito, il prof. Scagno ci ha dichiarato che nel documento originale, in corrispondenza di tale omissis, c'è una cancellatura, ma che tuttavia è possibile intravedere distintamente due parole: revolutia legionara. Nel frattempo è uscito presso Humanitas il volume di E.M. Cioran, Scrisori catre cei de-acasa (Bucarest 1995), che alle pp. 277-278 riporta il testo romeno della lettera, senza nessuna lacuna. Vi si legge testualmente: "Mai mult ca niciodata m-am convins ca Garda de Fier este ultima sansa a României". Cioè: "Più che mai mi sono convinto che la Guardia di Ferro è l'ultima possibilità della Romania".


13, rue du Sommerard Parigi, 13 dicembre 1937
Hotel Mohignau, Paris V

Caro Mircea,
Sento il bisogno di rispondere immediatamente alla tua lettera, perché tutto il periodo di un mese vissuto qui conferma i tuoi apprezzamenti sulla Romania. Ma prima devo parlarti di cosmologia. In Romania ero incline a credere che le tue ricerche sarebbero rimaste tentativi disperati, mentre qui, leggendo la tanto complicata Cosmologia, mi sono reso conto che un raccoglimento di qualche anno ti potrebbe condurre ad una sintesi di filosofia della storia, in grado di valorizzare tutto ciò che è febbre e spirito nella tua erudizione. Altrimenti, dobbiamo specializzarci anche noi, affinché tu non sembri tanto strano. Non puoi immaginarti quale sensazione indefinibile sia leggere il libro di un amico nel quale a noi non si faccia alcuna concessione. L'erudizione, in una generazione di fredduristi, ti aggiunge un'aureola particolare. Tutea e io ci salviamo pure noi, lui per la genialità e io per la tristezza.
Ho frequentato da quando sono qui quasi tutte le riunioni politiche di una certa importanza. Non potrei dire che mi interessino troppo, ma voglio sapere a quale tappa storica è arrivata la Francia e cosa c'è da fare da noi. Tanto la sinistra quanto la destra -ma in particolare quest'ultima- sostengono che la Francia è diventata una potenza di seconda mano e che senza un immediato miglioramento si avvia vertiginosamente verso la decadenza. Doriot -il migliore tra i nazionalisti, con propensioni da capo- diceva proprio oggi, ad un comizio, che alla Francia spetterà un destino simile a quello dell'Olanda se non potrà realizzare in qualche anno una rivoluzione nazionale. E' terribile credere come nel quadro della più grande prosperità regni qui il più cupo pessimismo. Tante riunioni in cui si parla soltanto dell'agonia della Francia.
La Romania non potrà sollevarsi di fronte all'occidente se non attraverso una rivoluzione di destra. Più che mai mi sono convinto che /.../ è l'ultima possibilità della Romania. La democrazia ha fatto della Francia una società e uno stato, una collettività, non una nazione. Qualunque gesto di distruzione della democrazia in Romania è un atto creatore. Queste sono banalità di una persona informata. La nuova generazione -guardata nella sua totalità- è più interessante /?/ che qui. I giovani nazionalisti francesi sono dei... "cuzisti"*. Mentirei se ti dicessi che non mi piace la Francia. Parigi è una città cui mi abbandono con voluttà, benché non gusti i suoi piaceri decadenti. Sono estremamente povero (1000 fr. al mese), e mi sta bene che anche esteriormente sia condannato all'isolamento. Strano che tu non abbia mai amato né Parigi, né Baudelaire. Questo spiega la diversità dei nostri temperamenti. Qualunque tristezza è una solidarietà con Parigi. Ti prego moltissimo di mandarmi Cuvântul - fammi un abbonamento perché vorrei scriverci anch'io per liberarmi della prospettiva della povertà. Sânziana mi sembra troppo vaporosa e lontana.
Avrei l'impressione di collaborare ad una rivista di astrologia - e poi sai benissimo che a me non piace molto scrivere. Non prendo la penna che nei momenti di infelicità o per necessità finanziarie.
Lo stesso affetto per te e Nina.
Emil Cioran

* Seguaci di A.C. Cuza. (Ndt)
Questa nota non spiega molto al lettore ignaro di storia romena. Il senso dell'epiteto applicato da Cioran ai nazionalisti francesi si chiarisce qualora si tenga presente che il movimento legionario cominciò a sviluppare le proprie potenzialità rivoluzionarie allorché si emancipò dalla tutela del prof. Cuza, la cui mentalità conservatrice era restia ad accettare il dinamismo della generazione di Codreanu. Insomma, Cioran vuol dire che, eccezion fatta per Jacques Doriot, il nazionalismo francese è attestato su posizioni di tipo maurrassiano, che i Romeni si sono lasciate alle spalle da tempo grazie al movimento legionario. (Nota di C. M.)


GLI EBREI SECONDO CIORAN


Nel 1990 la casa editrice Humanitas di Bucarest pubblicò una nuova edizione del saggio di Cioran Schimbarea la fa\[ a Rom`niei [La Trasfigurazione della Romania], che era uscito per la prima volta nel 1937 presso Editura Vremea, sempre a Bucarest. Scriveva l'Autore presentando la nuova edizione: "Ho scritto queste divagazioni nel 1935-1936, a ventiquattro anni, con passione e orgoglio. Tra tutto quanto ho pubblicato (...) questo testo (...) è quello che mi è più estraneo. Non mi ci ritrovo, anche se mi sembra evidente la presenza della mia isteria di allora. Ho creduto doveroso sopprimere alcune pagine pretensiose e stupide..."
Traduciamo i brani più rilevanti delle pagine (pp. 127-135) di Schimbarea la fata a României soppresse da Cioran. Circa la loro stupidità, giudichi il lettore.

C. M.

Per la vitalità di un nazionalismo, è molto importante la fonte da cui esso nasce e di cui si alimenta. Se è chiuso in se stesso ed è sterile nelle sue radici, esso parte da una inutile coscienza di conservazione, senza l'appoggio dell'istinto e senza una qualche possibilità di ancorarsi nell'universale. Se è troppo aperto verso il mondo, gli mancano quella resistenza concreta e quella tensione aggressiva che si addicono ad ogni nazionalismo. Le forme di vita di una nazione devono consistere d'una somma di elementi che gravitino tutti intorno a due fuochi: la forza e la giustizia sociale. Un nazionalismo che creda di potere risolvere il problema di una nazione senza dare una soluzione ai conflitti e alle diseguaglianze sociali, è non solo reazionario, ma anche impossibile. In altri tempi, la grandezza di una nazione poteva elevarsi sull'accettazione tacita o volontaria delle ineguaglianze; dopo la rivoluzione russa, ciò non è più possibile, se non come realtà transitoria. Lenin ha fatto molto di più per il nazionalismo, che per il comunismo. Anzi, egli ha salvato il nazionalismo. Se non ci fosse stata la rivoluzione russa, il nazionalismo sarebbe stato così reazionario, che in suo nome le proprietà dei poveri sarebbero state assegnate ai ricchi. A prescindere dal loro orientamento politico, Lenin ha ispirato a tutti i movimenti ideologici un interesse per i problemi sociali, a volte un vero e proprio complesso di inferiorità. Nulla può più essere intrapreso in nome delle ineguaglianze e dell'intangibilità della proprietà. [...]
Com'è che il nazionalismo romeno è rimasto estraneo a tanti problemi drammatici, vorrei dire a tanti problemi moderni? La Romania è un paese che non muore di fame per il fatto che la miseria è da secoli una condizione naturale. E' un paese di contadini miserabili e denutriti, che da mille anni sopporta la miseria a causa degli stranieri. [...] Per mille anni abbiamo vissuto tutti quanti sotto gli stranieri; è una mancanza di istinto nazionale non odiarli e non eliminarli. L'invasione giudaica negli ultimi decenni del divenire romeno ha fatto dell'antisemitismo il tratto essenziale del nostro nazionalismo. Incomprensibile altrove, da noi questo fatto trova una sua legittimità, la quale non deve essere tuttavia esagerata. Se la Romania non avesse avuto neanche un ebreo, avrebbe essa rappresentato un'esistenza meno miserabile? In quale misura il suo livello storico (l'unico che conta) sarebbe stato più alto? Che vi sarebbe stata una minor corruzione, è evidente; ma da qui alla storia, ce ne passa. Gli ebrei, al massimo, hanno ritardato l'ora solenne della Romania; ma non sono loro, in nessun caso, l'origine della nostra miseria, della nostra miseria di sempre. Un nazionalismo che non veda questa realtà è falso ed è troppo unilaterale per essere durevole. Non si può fare la rivoluzione con falsi problemi.
La sanità di un organismo nazionale si verifica sempre nella lotta contro gli ebrei, specialmente quando costoro, col loro numero e la loro sfrontatezza, invadono un popolo. Ma l'antisemitismo non risolve né i problemi nazionali né quelli sociali di un popolo. Esso rappresenta un'azione di purificazione e nient'altro. I difetti costituzionali di un popolo rimangono gli stessi. La limitatezza d'orizzonti del nazionalismo romeno dipende dal fatto che esso deriva dall'antisemitismo. Un problema periferico diventa la fonte dell'azione e della visione.
Il nostro nazionalismo deve partire dal desiderio di rifarci del nostro sonno storico, da un pensiero messianico, dalla volontà di fare storia. Dobbiamo fare i conti con la nostra essenza specifica, dobbiamo confrontarci con il nostro destino, in tutta la sua immanenza sostanziale. Davanti a problemi di questo genere, che cosa conta la reazione secondaria riguardo a una minoranza? Dal momento che non esiste una soluzione universale del problema ebraico, l'antisemitismo non costituisce una strada d'ingresso nella storia. Quali sono i motivi più profondi, che ci costringono a guardare agli ebrei solamente con disprezzo e con odio? Perché non esiste nessun uomo al mondo che ami gli ebrei in maniera naturale, spontanea, irriflessa? Donde scaturisce il dramma infinito della loro esistenza?
[...] L'ebreo non è il nostro simile, il nostro prossimo; anche se entrassimo con lui nella più stretta intimità, un abisso ci separerebbe, che lo vogliamo o no. E' come se essi discendessero da un'altra spcie di scimmie e fossero stati condannati fin da principio a una tragedia sterile, a speranze eternamente deluse. Non ci possiamo avvicinare loro da uomini a uomini, perché l'ebreo è prima ebreo e poi uomo. Questo fenomeno ha luogo tanto nella loro coscienza, quanto nella nostra. [...]
Ogniqualvolta un popolo prende coscienza di sé, entra fatalmente in conflitto con gli ebrei. Il conflitto latente che esiste sempre tra gli ebrei e il popolo rispettivo si attualizza in un momento storico decisivo, a un crocevia essenziale, per collocare gli ebrei di là dalla sfera della nazione. Anzi, esistono momenti storici che fanno degli ebrei, fatalmente, dei traditori. [...] Non sentendosi in patria in nessun luogo, essi non conoscono in nessun modo la tragedia della lontananza dalla patria. Gli ebrei sono l'unico popolo che non si senta legato al paesaggio. Nessun angolo della terra ha plasmato la loro anima; perciò sono gli stessi in qualunque paese o continente. La sensibilità cosmica è loro estranea. Gli zingari, che hanno trascinato la propria esistenza nella periferia dei villaggi e delle città, con tanti crepuscoli e tante aurore nell'anima, sono infinitamente più vicini alla natura che non gli ebrei, i quali recano con sé lungo il corso della storia le tenebre del ghetto, con le sue tristezze disgustose e le sue ironie rivoltanti - le quali hanno tolto gli ebrei dalla natura e li mantengono come un monito nella storia. Anche se ogni ebreo è un dio nei confronti di uno zingaro, chiunque si sente umanamente più vicino a quest'ultimo. In tutte le cose gli ebrei sono unici; non hanno pari al mondo, curvi come sono sotto una maledizione di cui è responsabile soltanto Dio. Se fossi ebreo, mi ucciderei subito.
[...] In che misura i capitalisti romeni sono meglio dei capitalisti ebrei? La stessa bestialità negli uni e negli altri. Non posso concepire, mi rifiuto di credere, che potremmo fare una rivoluzione nazionale la quale distruggesse i capitalisti e risparmiasse quelli romeni. Una rivoluzione nazionale che volesse salvare i capitalisti romeni mi sembrerebbe qualcosa di orribile. [...]
Se gli ebrei non avessero introdotto nel socialismo la visione materialista, che è l'attributo essenziale del loro "spirito", oggi non esisterebbe nessuno che non fosse in qualche misura socialista. Attraverso il marxismo, l'idea collettivista è stata infettata dal materialismo: è questo il vizio più grave col quale gli ebrei si sono identificati nel secolo scorso. Poi al materialismo si è aggiunto l'internazionalismo, e il processo di disintegrazione nazionale è cominciato. Gli ebrei non sono per l'universalismo, che è compatibile con le sfumature specifiche della cultura, ma per valori comuni e artificiali, privi di riferimenti concreti, cioè per l'internazionalismo. Universalista è, per esempio, la coscienza europea di Goethe o di Nietzsche; costoro hanno vissuto un'Europa formata da elementi irriducibili, i quali tuttavia si incontrano in un punto ideale dello spirito. La cultura è universalista nella sua essenza. Ma non esiste internazionalismo in cultura. Perciò un fenomeno della periferia della cultura, come è la stampa, è potuto diventare tante volte lo strumento caratteristico e l'espressione adeguata dell'internazionalismo. Solo l'economico ha valore in quanto è internazionale. Di qui, la sua assolutizzazione da parte del materialismo storico. [...]

I TRE CUORI DI SIBIU

Il 5 aprile 1978, da quel "garage apocalittico" che è diventata Parigi, Cioran scrive a suo fratello Aurel, rimasto a Sibiu, in Transilvania: "La mia fedeltà alle strade di Sibiu rimane inalterabile. Quando sei tentato di maledire la tua sorte, di' a te stesso che abiti in una delle più belle città che ci siano".
Emil Cioran arriva a Sibiu a dieci anni, nel 1921, su una carrozza noleggiata da suo padre, il pope Emilian. Ha pianto per tutta la durata del viaggio, perché ha dovuto abbandonare quel mondo primitivo che è stato il paradiso della sua infanzia e sarà il ricordo struggente di tutta la sua vita: il villaggio di Rasinari, con la collina di Coasta Boacii che lo sovrasta. Sistemato presso una famiglia sassone della città, il bambino viene iscritto al liceo Gheorghe Lazar, dove farà gli studi secondari. Nel 1924, quando suo padre viene nominato protopope di Sibiu, tutta la famiglia Cioran va ad abitare al numero 11 di Strada Tribunei.
Parecchi decenni dopo, Cioran rievocherà Sibiu in questi termini: "Era una città molto importante in Austria-Ungheria, una specie di città-frontiera in cui c'erano moltissimi reggimenti e tutto quello che si può immaginare. Vi erano tre nazionalità -germanica, rumena, ungherese- che coabitavano senza problemi. Curiosamente questo fatto mi ha segnato per tutta la vita, così che non riesco a vivere in una città in cui si parla una sola lingua perché mi annoio subito. Là, a Sibiu, amavo questa diversità. Dopo il villaggio, direi che Sibiu è la città che ho amato di più"1. Ed è a Sibiu che Cioran vive quello che egli stesso chiama "il grande dramma della mia vita, che è durato parecchi anni e mi ha segnato per sempre"2: improvvisamente, intorno ai vent'anni, comincia a soffrire d'insonnia. Le notti insonni di Sibiu, dirà più tardi, sono state i momenti più straordinari della sua vita; anzi, sono state all'origine della sua visione del mondo. "Circolavo per ore e ore nel cuore della città, una città molto bella, tedesca, di origine medievale [...] Uscivo verso mezzanotte-l'una e passeggiavo per le strade come un fantasma. Oltre a me non c'era che qualche puttana. In quelle ore in una città regna il silenzio più totale e tutto quello che ho pensato e elaborato viene da quelle notti"3. Nel testo che Cioran scrive in quegli anni, Pe culmile disperarii (Sulle vette della disperazione), troviamo fissate le rivelazioni della solitudine e della notte.
Quella in cui Cioran vive gli anni dell'adolescenza e della giovinezza è una città cui ben si potrebbe adattare la metafora enniana dei tria corda, "tre cuori" cui corrisponde la triplice denominazione del luogo: Hermannstadt per i Tedeschi, Nagyszeben per gli Ungheresi, Sibiu per i Romeni. Il cuore tedesco della Villa Hermanni, fondata dai Sassoni nel XIII secolo, pulsa nella cultura filosofica e storico-artistica di Cioran. "Io ero il solo rumeno che andava alla biblioteca tedesca"4, dirà. A quindici anni trascrive su un quaderno diversi brani di Schopenhauer e di Nietzsche; poi passa a leggere Kant, Fichte, Hegel, Simmel, Wölfflin, Worringer, Keyserling, Husserl, Jaspers; va in Germania come borsista della Fondazione Humboldt e studia alle università Friedrich Wilhelm di Berlino e Ludwig Maximilian di Monaco, dove segue i corsi di Hartmann e di Klages; e nell'atmosfera esaltante della rivoluzione crociuncinata ammira da vicino la "trasfigurazione" del popolo tedesco. Alla cultura tedesca, Sibiu è strettamente legata; non solo nella sua storia, ma anche nell'esperienza e nella memoria di Cioran. Una cartolina che raffigura i vecchi bastioni di Hermannstadt farà scattare nello scrittore sessantenne il ricordo dello studio di Kant: "Chissà quanti libri avrò letti sulle panchine della passeggiata di lassù! Il più difficile di tutti fu La critica del giudizio. Ci ho penato sopra per giorni e giorni. Ero serio, a quel tempo" 5.
Il cuore ungherese della città, di Nagyszeben, palpita soprattutto nella musica, quella musica di cui risuonano alcune pagine di Schimbarea la fata a României (La Trasfigurazione della Romania): "Che cosa rimane degli ungheresi? Le ungheresi? Certamente, ma prima di tutto la loro musica. Al Giudizio Universale, gli ungheresi dovranno solo mandare una banda di zigani, e saranno accolti in paradiso senza nessuna obiezione. [...] Pensate ai dondolii della musica magiara, che non vogliono arrivare da nessuna parte! Una tristezza che si alimenta di se stessa. Il suo fascino preculturale, i suoi mezzi semplici e la mancanza di ornamento esprimono un tedio del sangue. Una melanconia biologica, non stilizzata [...] Per esprimere lo sfrondamento del cuore, le sue lungaggini monotone sono addirittura più efficaci del grigiore delle marce funebri [...] Non esiste musica in cui si esprima in maniera più elementare la presenza delle lacrime nel mondo. [...] Keyserling insisteva sulla tristezza araba, russa e argentina. Come ha potuto dimenticare gli ungheresi? Questo popolo è l'unico, in Europa, che ancora conservi la tradizione di un'esaltazione dionisiaca. Chi ha visto una bettola magiara e quelli che dentro ad essa si cullano nelle tristezze, si abbandonano all'ebbrezza con tanta partecipazione e frenesia, non può nascondere la sua simpatia per un'umanità così primitiva, così poco aderente all'insulsaggine del nostro tipo di vita. [...] Gli ungheresi hanno in sé istinti di nomadi. Stabilendosi e fissandosi in uno spazio determinato, non hanno potuto sconfiggere una nostalgia di randagi. [...] Tutti i lamenti magiari hanno la loro origine in questa tristezza dell'istinto. [...] Gli ungheresi sono un popolo di conquistatori che si è ridotto a ingrassare porci. Dei falliti senza pari"6. Ma Cioran non si limita a scoprire l'affinità del suo io con l'anima musicale ungherese; scrivendo all' "amico lontano", egli arriva addirittura a vagheggiare una parentela di sangue con i popoli delle steppe asiatiche. "[...] sento l'Asia muoversi nelle mie vene: sono forse il discendente di qualche tribù inconfessabile o il portavoce di una razza un tempo turbolenta e oggi muta? Spesso mi coglie la tentazione di forgiarmi un'altra genealogia, di cambiare antenati [...] Sì, nelle mie crisi di fatuità propendo a credermi l'epigono di un'orda illustre per le sue depredazioni, un turanico d'animo, l'erede legittimo delle steppe, l'ultimo mongolo..."7.
Proprio l' "amico lontano", Constantin Noica, disse in una conferenza radiofonica del 1940 che "il significato spirituale della Transilvania è [...] qualcosa di ben preciso: tradurre la passività romena in termini attivi; fare perfino della nostra attesa, perfino della nostra tendenza alla conciliazione, una forma di lotta. In altre parole: convertire la negatività romena in positività romena"8.
Se la ricognizione di Noica è esatta, allora è lo stesso cuore romeno della città transilvana (la città degli studi liceali del poeta militante Octavian Goga, anche lui nativo di Rasinari e figlio di pope) quello che in Cioran si mette a battere freneticamente, fino al delirio, negli accessi ed eccessi dell'entusiasmo futurista. Certamente, il fanatismo attivistico nutrito di ripulsa per la tradizione bizantina e soprattutto il culto superstizioso della città, dell'industrializzazione, dell'urbanizzazione9 vanno molto al di là dei "termini attivi", delle "forme di lotta" e della "positività" di cui parla Noica. Ed esprimono posizioni lontane anni luce da quelle del contemporaneo Elogiul satului românesc (Elogio del villaggio romeno), nel quale Lucian Blaga giudica l'insediamento contadino tradizionale come "l'unica presenza ancora viva, benché immortale, immortale benché tanto terrena". Tra i due intellettuali transilvani, senza alcun dubbio non è quello di Rasinari, ma è quello di Lancram che meglio risponde alla caratterizzazione operata da Noica.
Tuttavia sarebbe erroneo giudicare i furori modernisti di Cioran come la manifestazione di una reale estraneità dello scrittore alla tradizione culturale romena. Il dinamismo cioraniano non è altro, in fin dei conti, che la forma esasperata, patologica e quasi caricaturale di quella volontà di azione e di lotta che Noica individua al fondo dello spirito romeno transilvano. Infatti è proprio nella cultura romena di questa regione che noi troviamo attestata una tendenza innovatrice, fin dal secolo dei Lumi, quando dalla breccia apertasi nell'Ortodossia e dal più diretto e intenso contatto con l'Occidente europeo sorse quella "Scuola latinista transilvana" che pubblicò alcune delle sue opere proprio a Sibiu (nella imperial-regia tipografia romena di Petru Bart) ed estese la propria sfera d'azione alla Valacchia tramite un professore del seminario di Sibiu, Gheorghe Lazar.
Uscito dal Liceo intitolato a Gheorghe Lazar, Cioran diventa anche lui il fautore di una modernizzazione del paese; ma il suo ideale di "trasfigurazione della Romania" è animato dalla volontà di potenza e oppone radicalmente l' "esaltazione" e il "fanatismo" alle piatte mediocrità e alle vuote astrazioni dei programmi di ascendenza illuministica: "Il mio desiderio assoluto è che l'uomo non sia più un animale razionale, cioè un animale mediocre, ponderato, equilibrato o desideroso di equilibrio, ma piuttosto un animale assurdo, dalle fantasie pericolose, che rischia tutto in ogni momento, avventuroso per motivi tragici, e non per superficialità"10. Non la Ragione, ma la Vita, era "la mia divinità di allora"11, ricorderà nel 1957 all' "amico lontano". La Vita: una divinità alla quale lo scrittore di Rasinari non ha reso culto con quella "religiosità misurata, positiva e calcolata"11 che secondo lui è tipica del transilvano. Che davvero Cioran sia l'ultimo turanico, l'ultimo mongolo? Un discendente di quei Peceneghi che nel XIII secolo militavano nell'esercito del conte di Sibiu?
CLAUDIO MUTTI

1. Maura Formica, Le vertigini della veglia. Emile M. Cioran, Intervista, "Leggere", maggio 1989, pp. 44-45.
2. Ivi, p. 45.
3. Ivi, p. 45.
4. E.M. Cioran, Luoghi ritrovati. E.M. Cioran e P. Tutea a confronto, I Quaderni del Battello Ebbro, Sasso Marconi 1995, p. 33.
5. Lettera ad Aurel Cioran, 11 aprile 1979.
6. E. Cioran, Schimbarea la fata a României, Ed. Vremea, Bucuresti s.d. [ma: 1936], pp. 223-225.
7. E.M. Cioran, Storia e utopia, Adelphi, Milano 1982, p. 31.
8. C. Noica, Pagini despre sufletul românesc [Pagine sull'anima romena], Humanitas, Bucuresti 1991, pp. 110-111.
9. Schimbarea, cit., pp. 107-108.
10. E. Cioran, Scrisoare din munti [Lettera dai monti], "Calendarul", a. II, n. 447, 16 agosto 1933, p.1.
11. E.M. Cioran, Storia e utopia, cit., p. 13.
12. E. Cioran, Maglavitul si cealalta Românie [Maglavit e l'altra Romania], "Vremea", a. VIII, n. 408, 6 ottobre 1935, p. 3.



ANCHE CIORAN SOTTO PROCESSO ?


Claudio Mutti


Anche nei processi alle idee esistono stili diversi. C'è lo stile liturgico della Bücherverbrennung, che ben si riflette nelle allocuzioni rituali degli accademici del Terzo Reich; c'è lo stile da sostituto procuratore di Carlo Ginzburg, di Daniel Dubuisson o di quel Gianluca Nesi che ha scoperto nell'opera di Eliade il "messaggio segreto" dell'apologia dell'Olocausto; c'è lo stile burocratico-poliziesco del György Lukács della Distruzione della ragione e del Catalogo della stampa antidemocratica.
C'è, poi, la diversità di stile dei vari autori inquisiti: c'è chi contrattacca, chi fa finta di niente e delega ad altri il compito di difenderlo, chi abiura e chi si autocensura. Nella fenomenologia dei processi alle idee, fattasi alquanto abbondante negli ultimi decenni, si potranno facilmente trovare esemplificati tali atteggiamenti.
Ma qual è l'obiettivo delle manovre che sfociano in tali processi, spesso celebrati in contumacia assoluta, vale a dire dopo la morte dell'imputato?
Il dibattito divampato a suo tempo intorno a Nietzsche e a Heidegger ha dimostrato che, se si riesce a mettere un pensatore sul banco degli imputati accusandolo di complicità (magari postume come appunto nel caso di Nietzsche) col nazionalsocialismo o con qualche vera o presunta variante del fascismo, allora la sua opera non può più costituire un punto di riferimento nella nuova era dell'umanità apertasi "dopo Auschwitz". E se si vorrà recuperare l'opera dell'imputato, sarà obbligatoria una radicale "rilettura" che la espurghi da ogni valenza eterodossa e politicamente scorretta, riconciliandola in qualche modo con l'ortodossia attualmente vigente. "Nazificati" e quindi "denazificati" Nietzsche e Heidegger, adesso tocca a Dumézil, a Eliade, a Cioran, a Noica e ad altri.
Se si vorrà restituire agli accusati la dignità morale richiesta dall'egemonia liberaldemocratica e il diritto di cittadinanza nella repubblica delle idee, sarà indispensabile mettere la sordina a quegli aspetti della loro opera che contrastano con i dogmi in vigore nell'età dei Lumi, giunta ormai ad un grado elevato di oscurantismo.


Il caso Eliade

Alcuni anni fa (27 aprile e 15 maggio 1996) il "Corriere della Sera" pubblicò un paio di articoli di Cesare Segre che rilanciavano contro Eliade vecchie accuse e ne inventavano di nuove. Ne riportiamo un brevissimo campione: "Il più compromesso col fascismo è Mircea Eliade (1907-1986). Dalla partecipazione giovanile al movimento criminale romeno detto Guardia di Ferro, si giunge alla celebrazione del totalitarismo (sic!, n.d.r.) di Salazar, infine alla giustificazione del genocidio nazista. Qui la coerenza tra teoria e prassi è netta: basta pensare alla mistica celebrazione dei riti di sangue e dei sacrifici umani, in una vera religione della morte. Eliade elaborò, in base alle sue teorie sulle origini, una propria dottrina razzista".
Inutilmente Julien Ries intervenne a chiedere dove mai fosse rintracciabile, in Eliade, l'asserita "giustificazione" del "genocidio nazista"; Segre gli replicò diffidandolo dal "ricorrere ad argomenti di tipo revisionista". Invano Ries denunciò il tentativo di imabstire un processo contro Eliade sulla base di elementi attinti dal campo ideologico, elementi che si cercava di confermare "con l'aiuto dei testi eliadiani estrapolati dal loro contesto e interpretati alla luce dell'ideologia". Il quotidiano diretto da Mieli diede ovviamente l'ultima parola a Segre, il quale non seppe far di meglio che che reiterare l'accusa di "nazismo", in questi termini: "Il membro della Guardia di Ferro, che già si rifaceva a un'ideologia mistico-magica, l'odiatore del mondo scaturito dalle rivoluzioni del 1789 e del 1848, l'ammiratore di Salazar, il corrispondente fedele di Evola, è naturale che giustificasse il genocidio". Il bello è che fu proprio l'autore di questa prosa ad attribuire ad Eliade, testualmente, una forma di "delirio".
A delirare, aveva cominciato già nel 1949 Ambrogio Donini, il quale tentò di dissuadere Cesare Pavese (all'epoca funzionario della Einaudi) dal pubblicare due libri di Eliade, denunciando quest'ultimo come "scellerato fuoruscito dalla Romania, mestatore fascista". In questi termini, almeno, Furio Jesi riassume il contenuto della lettera di Donini. Ma il primo attacco meditato e pesante contro lo studioso romeno risale al 1972, quando un fantomatico "Istituto Dr. J. Niemirower" di Gerusalemme pubblicò un Dossier Mircea Eliade su un altrettanto fantomatico bollettino intitolato "Toladot". Il dossier gerosolimitano riportava alcune affermazioni sugll'invasione ebraica della Romania, affermazioni che Eliade avrebbe fatte nel dicembre 1937 sulla rivista legionaria "Buna Vestire".
Che quello di "Toladot" fosse un volgarissimo falso, è oggi più che evidente, perché il testo in questione è accessibile nell'originale nelle biblioteche romene. Delle parole riportate da "Toladot", non vi è neanche l'ombra. Comunque, il dossier venne divulgato in Italia nel 1977 da Alfonso Di Nola, su "La Rassegna mensile di Israel"; l'opera di divulgazione fu proseguita da Furio Jesi, prima su "Comunità" (la rivista di Olivetti) nel 1978, poi con Cultura di destra nel 1979. Enrico Filippini, da parte sua, scrisse su "La Repubblica" del 4 maggio 1979 che Eliade aveva "consegnato alle SS gli ebrei romeni". Testuale.
L'argomento venne ripreso nel 1986 da Crescenzo Fiore e da Vittorio Lanternari; nel 1988 Radu Ioanid (su "La Critica Sociologica") accusò Eliade di "mancanza totale di sensibilità per quel che riguarda la grande tragedia dell'olocausto". Nel 1989 Alfonso Di Nola (in "Marxismo Oggi") ricapitolò i termini del "dibattito" su Eliade e rivendicò a se stesso il merito di averlo suscitato in Italia. Di Nola aggiunse nuove enormità a quelle già entrate in circolazione; arrivò ai limiti del grottesco sostenendo che Codreanu era caduto "vittima di una faida di gregari delle sue orde"! Contemporaneamente, costretto a replicare a quanti avevano messo in dubbio l'autenticità della fonte israeliana, Di Nola faceva un'ammissione importante: né lui né Furio Jesi avevano mai visto, né nell'originale né in fotocopia, la "fonte" su cui avevano costruito lo scandalo!
Agli inizi degli anni Novanta, l'intellighenzia mondialista riemersa nella Romania "liberata" si mobilita anch'essa nella campagna postuma contro Eliade. Il la viene dato ancora una volta da Gerusalemme, dove un "Centro Internazionale per lo Studio dell'Antisemitismo" ha pubblicato, a firma di Leon Volovici, un nuovo e più organico dossier a carico di Eliade e di tutta la "giovane generazione". Nella Diaspora, Edgar Reichmann mette in guardia più volte i lettori di "Le Monde" contro "le trappole mortali di Eliade"; Norman Manea condanna Eliade per "mancanza di fiducia nella democrazia"; Isac Chiva ravvisa nell'"opera perniciosa" di Eliade "un pensiero esplicitamente fascista e antisemita" e accusa lo storico delle religioni di aver prodotto "una storia omicida". Non contento di ciò, dichiara di considerarlo "un poligrafo mediocre, sia come romanziere, sia come storico delle religioni e come etnografo; è un teologo, anche se vorrebbe essere un uomo di scienza".
Interviene allora, contro il "teologo" Eliade, il Grande Inquisitore Daniel Dubuisson, il quale emette una condanna squisitamente teologica, accusandolo di eresia: "La concezione eliadiana del sacro è, in rapporto al giudeo-cristianesimo, eretica". Ma, agendo in un paese laico, Dubuisson ritiene opportuno formulare anche un'altra imputazione, che magari faccia ricadere l'opera di Eliade sotto i rigori della legge Gayssot-Fabius del 13 luglio 1990, quella che ha restaurato in Francia il delitto di opinione. Ecco dunque che Eliade è incolpato di aver costruito una... "ontologia antisemita".
Dall'ontologia alla metafisica tout court: nel successivo studio sulle Mitologie del XX secolo (Bari 1995) Dubuisson si propone di approfondire la ricerca sulle "origini inconfessabili" delle teorie di Eliade e di chiarire come lo studioso romeno fosse "ossessionato dalla preoccupazione di dare fondamento metafisico alla sua avversione per gli Ebrei e per l'ebraismo". Nel libro di Dubuisson, Eliade non è da solo, ma appare affiancato da altri personaggi poco raccomandabili, che egli innalzò "al rango di pensatori".
Si tratta del "propagandista fascista" Julius Evola, di René Guénon e di Henry Corbin.

AGGIORNARE CITANDO NESI.


Vogliamo occuparci qui di un caso particolare, quello di Cioran, poiché la recente pubblicazione dei Quaderni 1957-1972 presso l'editore Adelphi ha dato lo spunto a qualche recensore per rievocare le giovanili simpatie legionarie dello scrittore romeno, ragion per cui non è escluso che prima o poi vengano rilanciate quelle imputazioni che già sono state formulate, soprattutto in Francia, all'indirizzo di Cioran.
Tale ipotesi non è gratuita. Il 30 dicembre 1998 "Le Monde" dedicò una mezza pagina ad un libro uscito a Bucarest, il Diario dello scrittore ebreo Mihail Sebastian, presentandolo come "un documento angosciante circa l'impegno dell'élite intellettuale romena nell'elaborare la dottrina della Guardia di Ferro e nel giustificarne i crimini". Per quanto riguarda Cioran e i suoi rapporti col movimento legionario, Mihail Sebastian effettivamente se ne occupa, ma solo in un paio di righe su un totale di seicento pagine. Ma tant'è; dalla pubblicazione del Diario di Mihail Sebastian è stata colta l'occasione per far esplodere un vero e proprio "caso Cioran".
Per un processo postumo contro Cioran, d'altra parte, il manuale inquisitoriale era già pronto: l'ultima edizione del libro dell'israeliano Leon Volovici sugli intellettuali romeni (L'ideologia nazionalista e il "problema ebraico", Bucarest 1995) mette Cioran sul banco degli imputati accanto agli altri esponenti della "giovane generazione" (Eliade, Noica ecc.), a cominciare ovviamente dal loro maestro Nae Ionescu. Anzi, a partire addirittura dal loro capostipite spirituale, Mihai Eminescu (1850-1883), che il defunto rabbino di Bucarest, Moses Rosen, indicò come "uno dei responsabili di Auschwitz" (sic!), nell'intento (fallito) di indurre Ceausescu a bloccare la pubblicazione dell'Opera Omnia del massimo poeta romeno.
"Cioran - scrive Volovici - è conquistato, fino all'esaltazione, dalla frenesia dello scatenamento degli istinti barbari, prodotta dal nazismo (...) L'hitlerismo è per lui 'un nuovo stile di vita'; il culto della forza e l'importanza nazional-messianica dell'azione giustifica qualunque cosa, compreso l'assassinio politico (...) In Cioran predomina un'altra caratteristica di essenza fascista: il culto della rivoluzione e della dittatura, quali forme di scatenamento parossistico delle energie nazionali. Il movimento legionario ne è lo strumento cieco, primario". Da parte sua il neocattolico e neoliberale François Fejtö ha accusato Cioran... di essere morto senza "aver fatto pubblicamente il mea culpa a proposito di un libro scandaloso", La trasfigurazione della Romania, in cui "professava idee furiosamente razziste, xenofobe, antisemite".
La pubblicazione di uno studio di P. Bollon, Cioran l'Hérétique, ha rinfocolato la polemica. Su "Le Point", J.P. Enthoven ha decretato "la seconda morte di Cioran", rimproverando allo scrittore defunto "l'assenza di rimorsi, la tecnica della dissimulazione" e lanciando l'anatema sui "suoi orfani". Sempre su "Le Point", B.-H. Lévy ha ricordato l'imbarazzo di Cioran nel rievocare le proprie simpatie politiche giovanili.
C'è da rimpiangere la laconica sobrietà delle schede della Securitate degli anni Cinquanta, in cui di Cioran si diceva semplicemente: "Nel 1937 si iscrive nel movimento legionario, dove svolge una vivace attività, specialmente sul piano ideologico. Nel 1941, dopo la ribellione legionaria, fugge in Germania e poi si stabilisce in Francia. Conduce un'attività propagandistica ostile alla Repubblica Popolare Romena. In caso di identificazione, sia arrestato".
"L'ultima polemica parigina - ha scritto Ph. Cusin sul "Figaro Littéraire" - assume i termini di quella scatenatasi intorno a Heidegger. Forse un impegno di questo genere può giustificare l'incriminazione, post mortem, di un'opera o di un autore? Oppure esistono errori di gioventù che possono essere scusati e altri imperdonabili?" In difesa di Cioran intervenne anche Furet: "Cioran è un grande scrittore e un grande moralista, indipendentemente dalla sua adesione effimera alla Guardia di Ferro".
"Adesione effimera" è espressione adatta per designare l'impegno legionario di Cioran. Non si può certo dire che le idee esposte nel "libro scandaloso" del 1937 coincidano con quelle della Guardia di Ferro. Se è vero che la ripulsa della democrazia avvicinava Cioran a Codreanu, è anche vero che Cioran non nascondeva l'ammirazione per l'URSS: "La Romania ha molto da imparare dalla Russia (...) Quanto al bolscevismo, se è innegabile che rappresenta una barbarie unica al mondo, nondimeno esso è, per via dell'affermazione assoluta della giustizia sociale, un trionfo etico unico". Inoltre, in Cioran predominava un vitalismo che era all'origine di alcune posizioni poco compatibili con la religiosità caratteristica del movimento legionario. Nella Trasfigurazione della Romania vi è infatti una fobia antibizantina che contrasta con la spiritualità romena e ha come controparte un'autentica esaltazione del dinamismo cittadino e dell'industrializzazione totale, mentre la Guardia di Ferro, se pure non respingeva la prospettiva di un'industrializzazione equilibrata, nondimeno voleva garantire il carattere contadino della Romania. Una lettura spassionata del libro mostrerebbe dunque come Cioran sostenne sì il movimento legionario, ma seguendo una linea di pensiero propria.
Nel dicembre 1940, quando i legionari erano al governo con Antonescu, la radio nazionale trasmise una commemorazione di Codreanu redatta da Cioran. "In una nazione di schiavi, - diceva - Codreanu ha introdotto l'onore; in un gregge invertebrato, l'orgoglio. (...) Egli ha rotto il dolce silenzio della nostra esistenza e ci ha costretti ad essere. Le virtualità di una stirpe si sono incarnate in lui. (...) Il Capitano ha dato al Romeno un senso. (...) Dopo la sua morte, ciascuno di noi si è sentito più solo. (...) Fatta eccezione per Gesù, nessun altro morto ha continuato ad essere presente tra i vivi. (...) D'ora in poi, il Paese sarà guidato da un morto, mi diceva un amico sulle rive della Senna. Questo morto ha diffuso un profumo di eternità sulla nostra minutaglia umana e ha riportato il cielo sopra la Romania".
Trent'anni più tardi, però, Cioran si espresse in termini molto diversi: "La Guardia di Ferro era un fenomeno assai singolare. Il suo capo, Codreanu, era in realtà uno Slavo, che faceva piuttosto pensare a un atamano ucraino. (...) Come del cancro si dice che non è una malattia, ma un complesso di malattie, così la Guardia di Ferro era un complesso di movimenti, era più una setta delirante che non un partito. (...) Passava per essere una panacea di tutti i mali, compresa la noia e anche lo blenorragia (sic)".
L'emigrazione romena accusò Cioran di essere "passato nelle file dei non uomini", di avere "rinnegato il suo passato solo per paura e per interesse" e di aver commesso "il gesto più vile, infame e spregevole". Gli venne rinfacciato che fu lui a scrivere, anche se non la firmò, la prefazione apologetica a un libro di P. Guiraud sul movimento legionario. Secondo il poeta Gabriel Stanescu, le sue continue ritrattazioni erano dovute alla "paura di attacchi sionisti".