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Maurizio Tani
(Universitá d´Islanda, Reykjavík)
Il ruolo del patrimonio culturale neo-latino nell'Europa Danubiana
Quando, intorno al 1989, la caduta dei regimi nazional-comunisti nell'Europa
centro-orientale sancì la fine della guerra, più o meno fredda,
tra USA ed URSS e la vittoria dell'Occidente sull'"impero del male",
varie problematiche riemersero in tutta la loro drammaticità.
La nuova situazione venutasi a creare in Europa - sotto l'azione di nuovi desideri
economici ed inediti progetti politici - tra XVIII e XX secolo aveva, infatti,
lasciato irrisolte numerose e fondamentali questioni.
Per l'Europa delle nazioni (nate dai vari "risorgimenti" ottocenteschi)
il 1989 divenne l'ultima occasione per tentare di risolvere le numerose tensioni
(sociali, economiche e culturali) presenti nell'area danubiana.
L'Unione Europea, nata dal tentativo di evitare (dopo due guerre mondiali-macello)
nuove sofferenze ai popoli europei, e i suoi stati nazionali membri (Germania
ed Italia per primi) avrebbe dovuto aiutare i popoli dell'Europa danubiana in
questa importante fase.
Di questo erano convinti anche i politici di allora (da François-Marie
Mitterrand a De Michelis).
Occorreva agire e subito, magari rinunciando ad un po' di benessere e di tranquillità
conquistata in tanti anni di protettorato USA. Ma cosa fare? E chi avrebbe dovuto
fare? I tempi di Auschwitz erano ormai già troppo lontani. Troppo vicini
erano i tempi dei calorosi ricevimenti organizzati sulle rive del Danubio dai
vari capi nazional-comunisti dell'Est (non ultimo Nicolae Ceausescu) per i vari
politici dell'Ovest (da Nixon a Pajetta). Troppo vicini erano i tempi in cui
Andreotti scriveva le prefazioni ai volumi dei discorsi di Nicolae Ceausescu.
Troppo imminente era la possibilità di spartirsi le varie torte in arrivo
sui tavoli del potere (sparsi sui due lati dell'oceano Atlantico).
Fu così che l'Europa tornò, lungo il Danubio e le strade della
Jugoslavia, ad Auschwitz, alle pulizie etniche (invenzione ottocentesca degli
stati nazionali e non di Milosevic), ai bombardamenti sui civili.
Ma nell'odierna società del "politicamente corretto", delle
guerre umanitarie, intelligenti e pacifiche, non conviene troppo fermarsi a
pensare al passato: il must è guardare al futuro. E allora le priorità
diventano non più le persone ma, per esempio, le strade per i mezzi ad
idrocarburi, costruite magari sacrificando i fondi destinati ad ospedali, scuole,
biblioteche e servizi di assistenza ai più deboli (anziani per primi).
La gente però ha cuore e mente e non dimentica. Una volta seppelliti
i propri morti e nonostante i falsi bisogni da indottrinamento pubblicitario,
la gente vede le ingiustizie subite e pretende rispetto. Un bisogno genuino
che va aiutato ad esprimersi in maniera costruttiva e non lasciato esposto alle
strumentalizzazioni delle vecchie classi politiche in cerca di nuove legittimazioni
politiche.
Nell'Europa danubiana - diversamente da quanto accade in tante parti dell'"occidente"
- le tradizioni regionali sono vive e vegete.
Ed è in queste diversità, in questi ricchi patrimoni culturali,
sfuggiti (soprattutto nelle campagne) ai saccheggi delle passate dittature nazional-comuniste,
che occorre cercare gli elementi per una vera "rinascita", completamento
di quei processi di "risorgimento" ottocenteschi rimasti tragicamente
incompiuti.
Una rinascita che potrebbe portare forme di sviluppo economico "sostenibile",
a partire dal tanto decantato turismo alternativo (culturale, religioso, ecologico),
da promuovere non nei convegni salottieri ma sul territorio, con la diretta
gestione delle comunità locali.
Una "rinascita" nelle tradizioni che non potrà esser ridotta
ad una mangiata alla "sagra del Mars fritto" (magari sponsorizzanto
da qualche fondo europeo, fermo però in chi sa quale agenzia per lo sviluppo)
nè tantomeno al populismo sciovinista, utile per aizzare a fini "polotici"
popoli contro popoli, famiglie contro famiglie, padri contro figli.
Chi abbia una minima dimestichezza con le tradizioni e le culture dei popoli
danubiani sa perfettamente come la diversità accomuni, ovvero che la
diversità non è mai assoluta e che si accompagna ad un ugual grado
di identità. Un fatto che trova piena spiegazione nella storia, quella
capace di tenersi lontana dalle strumentalizzazioni politiche (può succedere!),
di queste regioni.
Una storia fatta di popoli in movimento - tra Asia e Mediterraneo - lungo fiumi,
mari e strade, luogo d'incontro tra le tradizioni greche e latine, celtiche
e centro-asiatiche, slave e germaniche, ungheresi, turche, rom ecc. Una storia
di grandi imperi multietnici (da quello romano a quello austro-ungarico, da
quello ottomano a quello mongolo) e di piccoli regni dalle velleità imperiali.
Una storia durante la quale la latinità ha saputo svolgere sempre un
ruolo fondamentale.
Il patrimonio culturale euro-danubiano è ancora oggi lo specchio di questa
storia.
Nonostante le numerose pulizie etniche novecentesche e le politiche nazionali
ancora restie a promuovere pienamente le minoranze etniche, le comunità
di lingua neo-latina sono sparse su tutta l´Europa danubiana(1).
Ovunque i monumenti, i toponimi, le strade ed i ponti lasciati dall'impero romano
nelle sue province danubiane (Germania, Raetia, Noricum, Pannonia, Dalmatia,
Moesia, Dacia e Thracia) ricordano la vicinanza, al di là dell'Adriatico,
dell'Italia.
Una vicinanza sentita anche in epoche successive e nonostante il sorgere lungo
le rive dei Danubio di nuove compagini statali (imperi unno, gepida, ostrogoto
e avaro, germanico, bulgaro, Ungheria, Serbia, Cumania e Canato dell'Orda d'Oro,
Impero Ottomano). Anzi, queste nuove realtà politiche, essendo prive
- diremmo oggi - di "legittimità istituzionale" cercarono di
presentarsi come novelle Roma: lo fece Attila, lo fece Carlo Magno (che volle
il suo regno "Sacro e Romano"), lo fecero i re "apostolici"
d'Ungheria, lo fecero le repubbliche marinare che si sostituirono, politicamente
ed economicamente (Venezia e Genova soprattutto, ma anche Pisa, Ancona e Ragusa),
all'Impero Romano nel Mediterraneo e del Mar Nero.
Románia (Romagna in italiano) continuò ad esser chiamata l'Europa
rimasta all'Impero Romano, il quale riuscì a sopravvivere fino al 1453
(come potenza di un certo rilievo fino al 1204 e al 1260-1300 poi impegnata
a difendersi da ottomani e "latini") grazie allo spostamento - avvenuto
nel 330 - della capitale a Bisanzio/Costantinopoli "che è Roma".
Mercanti, pastori, missionari continuarono a mantenere vivo l'uso delle lingue
neo-latine.
Il cristianesimo latino (portato nella regione principalmente da missionari
italiani) si affermò come predominante nelle province di Dalmazia e Pannonia,
dove sorsero i regni di Croazia e Ungheria, raggiungendo poi da lì la
Valacchia e la Moldavia.
L'Europa danubiana poteva continuare a darsi un'organizzazione sociale, politica
ed economica soltanto seguendo la tradizione di Roma. E questa idea trovò
nuova fortuna dal XIV secolo, quando anche nella regione giunse l'umanesimo
latino e furono istituite le prime università (nelle quali il latino
rimase spesso la lingua ufficiale fino alla fine del XIX secolo)(2).
L'Ungheria, infatti,(3) ebbe sia in epoca medievale che moderna
regnanti italiani, dal veneziano Pietro Orseolo, figlio del doge Ottone e di
una figlia di Stefano I il Santo, il quale fu il secondo re (tra 1038 e 1046)
in assoluto, agli Angioini di Napoli, la dinastia regnante (1301-1387) ungherese
più illustre dopo quella arpadiana e absburgo-lorenese.
Un discorso a parte meriterebbero poi i due membri del clan familiare valacco
degli Hunniadi (de Hunedoara/ Hunyadi): Giovanni (1385-1456) ed il figlio Mattia
Corvino (1440-1490), i quali divennero due delle figure più significative
dell'Europa rinascimentale, celebrati come paladini della cristianità
e dell'umanesimo latini(4).
L´importanza dell'elemento latino non s'affievolì neppure con l'arrivo
dei Turchi, i quali già da tempo avevano fatto propria la tradizione
ereditata da Roma (la città di Costantinopoli prese il nome di Ístanbul
soltanto alla fine del XVIII secolo).
Anzi, in Ungheria, Transilvania, Moldavia e Valacchia l'arte e la cultura umanistico-rinascimentale
continuarono a mantener vivo il culto della latinità, arricchita dalla
tradizione greca.
A tal proposito basterebbe citare i cronisti moldavi Grigore Ureche, Miron Costin,
e Ion Neculce; il valacco Constantin Cantacuzino (educato a Padova); i monaci
di Transilvania Samuil Micu, Gheorghe Sincai e Petru Maior, eccetera. Oppure
basterebbe fare un solo nome: il grande intellettuale umanista e principe moldavo
Dimitrie Cantemir (1673-1723)(5).
Con l´occupazione da parte degli eserciti al servizio della Casa d'Austria,
nel 1687, della Transilvania(6) nuove occasioni di legame con l´Italia (dal
XVIII secolo in gran parte controllata dagli Absburgo-Lorena). Nel 1697-1701
una parte significativa dei greco-ortodossi romeni di Transilvania accettò
l'unione con la chiesa romano-cattolica (dal XVI secolo attivissima in tutta
la regione grazie alla congregazione di "Propaganda Fide" e all'uso
di formare il proprio clero locale a Roma e a Vienna).
Quando, finalmente, i secoli XVIII e XIX portarono i popoli d'Europa a rilegge
il proprio patrimonio culturale in una nuova prospettiva, fu assai immediato
tracciare inediti percorsi culturali e progetti politici ispirandosi alla classicità
romana e latina, rimasta sempre viva in tutta l'Europa danubiana.
L'invocazione delle origini romane dei Rumeni e della vecchia "gloria romana",
opposta alla decadenza inaugurata dalla signoria ottomana e dall'amministrazione
fanariota, fu utilizzata dagli intellettuali romeni(7) a sostegno delle rivendicazioni
politiche e come stimolo per un Rinascimento nazionale.
Con la nascita della Romania, tra 1859 (Congresso di Parigi) e 1878 (Congresso
di Berlino), la possibilità per i popoli di lingua neo-latina di poter
contribuire piú vigorosamente allo sviluppo dell´Europa danubiana
finalmente vide una concreta realizzazione.
Da allora e nonostante le tante avversità, la Romania non ha mai perso
(neppure nei momenti piú cupi) questa vocazione, il cui valore guida
ha ritrovato dopo il 1989 la sua naturale dimensione europea.
E questo non potrebbe essere altrimenti, per uno stato che è tornato
ad usare come propria insegna nazionale l´aquila, già appartenuta
all'Impero Romano ed adoperata dai principi di Valacchia almeno fin dal XVII
secolo. Un fatto che va oltre il puro valore simbolico, trasformandosi in continuo
stimolo, sia per i popoli della Romania che per quelli dell´Europa danubiana
tutta (da sempre di lingua e di cultural neo-latina), ad un progetto unitario
di "rinascimento" collettivo, basato sul rispetto e l´aiuto
reciproco.
Un progetto, peró, che potrà pienamente realizzarsi solo con il
contributo di tutti gli altri popoli, stati, regioni e comunità dell'´Europa
e del Mediterraneo.
Roma, Piazza Navona: Scultura di Gian Lorenzo
Bernini raffigurante il Danubio;
Cluj: Monumento a Mattia Corvino; Ritratto di Dimitrie Cantemir; Attuale stemma
della Repubblica di Romania
1) Paesi, regioni e stati nazionali di lingua
rumena e dialetti romeni lungo il corso del Danubio (Ungheria, Serbia) e di
quello dei suoi affluenti di sinistra (il Tibisco con il Mures, il Siret, il
Prut in Romania, Moldavia ex sovietica ed Ucraina); paesi, regioni e stati nazionali
di lingua italiana, dialetti italiani settentrionali, ladini, friulani, istriana,
istro-romena, aromeni, megleno-romena) lungo le Alpi orientali, la costa orientale
adriatica (dall'Italia all'Albania, nonostante l'estinzione della lingua dalmata)
ed il tratto iniziale dei due principali affluenti di destra del Danubio - il
Drava (che nasce in Alto Adige nei pressi di Dobbiaco) e Sava (che nasce nelle
Alpi Giulie) -, in Grecia (sui monti Pindos e lungo il fiume Axiós) e
Macedonia (nei pressi dei laghi Ohridsko e Prespansko).
2 ) Nel 1348 venne fondata l´Università di Praga, seguita da quelle
di Cracovia (1364; dove erano state istituite fin dal 1401 borse di studio per
i giovani provenienti da Moldavia, Lituania e Galizia), Vienna (1365), Pécs
(1367), Óbuda (1395), Possono/Presburgo (Bratislava/Pozsony; 1465) Claudiopoli
(Cluj/Kolozsvár, 1581; diretta dall'italiano Antonio Possevino), Alba
Iulia (1622), Tirnavia/Nagyszombat (Trnava, 1635), Cassovia (Kassa/Kosice, 1657).
3 ) Come regno d'Ungheria va inteso non in senso di "stato degli ungheresi"
ma come ´insieme degli stati della Sacra, Angelica, et Apostolica Regni
Hungariae Corona, tra quali troviamo la Slavonia, la Croazia, la Bosnia, la
Transilvania, la Dalmazia, la Cumania, la Bulgaria, la Serbia e la Rascia, la
città di Fiume, la Lodomelia e la Galizia, la Valacchia e la Moldavia.
Un concetto quest´ultimo istituzionalizzato fin dai tempi del re (1387-1437)
ed imperatore germanico Sigismondo di Lussemburgo. Un regno, quello ungherese,
che vide gli italiani (grazie anche ai numerosi privilegi regi e alle loro congregazioni
sorte in quel paese) sempre attivissimi, sia come marcanti che come prelati
(vescovi ed abati), mercenari e funzionari (tra gli altri il fiorentino Filippo
Scolari, detto Pippo Spano), artisti (da Giovanni da Firenze a Masolino da Panicate,
da Chimenti Camicia a Bernardo Rossellino, da Baccio Cellini al Caradosso) ed
intellettuali (da Sebastiano Salvini, Antonio Bonfini a Galeotto Marzio da Narni),
oltre che sovrani. Non meraviglierà quindi sapere che l´Ungheria
(un paese che in seguito al ripopolamento post dominio turco del XVIII secolo,
era abitato al 60% da popolazioni non ungheresi) continuasse ad utilizzare il
latino come lingua ufficiale fino al 1846.
4 ) Il primo, infatti, dopo anni passati in Italia, divenne governatore di Transilvania,
reggente d'Ungheria, mentre il secondo - sposo di Beatrice d'Aragona (1457-1508),
figlia di Ferdinando I di Napoli - divenne il sovrano ungherese più celebrato
(come modello di re cristiano e di signore rinascimentale) nell'Europa latina.
5 ) Formatosi in patria sotto la guida di un
sacerdote cretese (dal quale apprese il greco, il latino e l'italiano), a 15
anni si trasferì a Costantinopoli, dove studiò all'Accademia greca
del Patriarcato ortodosso, in stretto contatto con l'Università di Padova,
e apprese il turco, il persiano e l'arabo. Nominato principe di Moldavia nel
1693 e, successivamente nel novembre 1710, dovette fuggire in Russia già
nel luglio 1711 a causa dei suoi ambiziosa progetti politici d´indipendenza
dalla dominazione ottomana. Il suo sogno era di creare uno stato moldavo centralizzato,
retto da una monarchia ereditaria e alleato in politica estera con la Russia,
allora guidata da Pietro il Grande. In Russia divenne consigliere principesco,
senatore alla corte di Pietroburgo, partecipando nel 1722 alla campagna di Persia
con l'incarico di redigere i proclami dello zar nella lingua locale. Ammalato,
dovette tornare in Russia, ove morì il 21 agosto 1723. Tra le sue opere
principali - tradotte anche in inglese, francese e tedesco, gli valsero nel
1714 la nomina a membro dell'Accademia di Berlino, fondata nel 1700 da Leibniz
- citiamo Il divano o la contesa del savio con il mondo o il giudizio dell'anima
e del corpo (stampato in greco e romeno nel 1698), Sacrosanctae scientiae indepingibilin
imago (Costantinopoli, 1700), Descriptio Moldaviae (1716), Cronaca dell'antichità
dei moldovalacchi latini (1719, scritta in romeno), Loca obscura in catechisi
(1720), Incrementa atque decrementa aulae othomanicae, Vita Constantini Cantemyrii,
cognomento senic, Moldaviae principis, Historia Moldo-Vlachica. Uno dei fili
conduttori della sua grande produzione letteraria sta nella convinzione che
la "nobiltà di un popolo" non stia nella sua antichità,
nella sua moltitudine o nella vastità dei suoi confini, ma nel suo grado
di "civiltà", intesa come complesso di scienza, cultura e buoni
costumi ("bunatalile obiceinice, cunostinta cinstirii si nevointa spre
dansa, invataturile si vredniciile"), e "cultura", intesa come
universale, non limitabile entro confini etnici, confessionali o religiosi.
6 ) Dove fin dal XVI secolo aveva fatto la sua prima apparizione anche la stampa
in lingua romena, con l´edizione, nel 1544, a Sibiu, e nel 1559, a Brasov,
di due catechismi di ispirazione calvinista, entrambi tradotti dall'ungherese.
7 ) (tra i quali Petru Maior, autore nel 1825 a Budapest del dizionario etimologico
romeno Lexicon valachico-latino-hungarico-ermanicum)